UNA RIFLESSIONE SUL SENSO DEL RACCONTO: LA RICONTESTUALIZZAZIONE DEL CONCETTO DI FIABA
Migliaia di anni fa, la presenza di piccole storie che si influenzavano a vicenda alterando ed ampliando il loro itinerario ha permesso il graduale conglobamento di una serie di caratteristiche sfocianti nella nascita della fiaba.
Il germanista e studioso di letterature comparate Jack Zipes la descrive come “una storia narrata oralmente, semplice e immaginosa, che conteneva elementi di magia e prodigi, e si collega ai sistemi di credenze, ai valori, ai riti e alle esperienze dei popoli pagani.
Nel corso dei secoli tali racconti hanno fronteggiato numerosi mutamenti, cibandosi della materia offertagli dal proprio contesto socio/culturale e spazio/temporale. Le fiabe hanno continuato ad essere riadattate e trasmesse oralmente in tutto il mondo fino ad oggi, fuggendo continuamente dalle convenzioni e dai tentativi di catalogazione imposti dalla riproduzione cartacea.
Similmente, anche il cinema ha compiuto lo stesso percorso, adattandosi ai cambiamenti tecnologici dovuti allo scorrere del tempo e fagocitando materiale sempre più nuovo, riaggiornando periodicamente il proprio linguaggio. D’altronde una forma d’arte, per poter sopravvivere, ha la necessità di essere ritrasmessa e di rinascere continuamente, senza divenire un reperto da museo formalmente definitivo (ecco perché nel contemporaneo il dibattito su cosa sia considerabile arte è ormai insensato ed obsoleto).
In Once Upon a time in hollywood Quentin Tarantino pare voler riflettere (tra le altre cose) proprio su ciò. Attraverso un lavoro di deprivazione strutturale e di sperimentalismo formale si interroga sull’attuale rapporto tra il pubblico e l’opera darte, tra lo spettatore e il cinema, tra il prodotto ed i suoi fruitori. Tuttavia, prima di ampliare questo discorso, reputo giusto fare una premessa e riflettere sul legame che il linguaggio audiovisivo ha instaurato con la fiaba nel corso del tempo e su come il contatto con essa abbia dato vita ad una particolarissima operazione di rilettura ed influenza reciproca, una rimessa in discussione dei canoni della loro struttura. Sì, perché è proprio da quel termine, “C’era una volta…” che Tarantino sembra voler partire per costruire il suo discorso.
Se da una parte il cinema ha sempre prodotto (fin dai primi anni 30′) classiche trasposizioni di fiabe popolari (come non prendere a soggetto l’operato della Disney? Da Biancaneve a Pinocchio, da Bambi a Peter Pan passando per Alice nel Paese delle Meraviglie e giungendo alle attuali trasformazioni live-action) dall’altra, con il passare del tempo, la materia d’origine è andata incontro a trasformazioni sempre più evidenti.
Il Peter Pan del 1953, ad esempio, rimaneva fedele al romanzo del 1911 Peter e Wendy, mentre il film del 1992 diretto da Steven Spielberg, Hook – Capitan Uncino ha rimescolato il materiale di partenza e lo ha raccontato in maniera differente, con il reale in contrapposizione al surreale (il protagonista del romanzo qui è un cinico avvocato).
Sconvolgimento e rilettura quindi, ma anche meta-racconto, elaborazione dell’atto narrativo. È il caso di Big Fish – Le Storie di una vita incredibile, di Tim Burton, un trattato di storytelling nel quale la magia si confonde continuamente con la realtà, in un gioco di rifrazioni che ammassa i piani narrativi con l’intento di affabulare lo spettatore.
Di estrema importanza è anche il lavoro di ricavo che il cinema esegue sul linguaggio della fiaba, ri-traducendo audio-visivamente le sue strutture e formule. Sono molteplici, infatti, i casi in cui i suoi archetipi vengono ripresi ed incorporati all’interno della narrazione cinematografica.
È il caso, ad esempio, dello Studio Ghibli, casa di produzione e studio cinematografico giapponese che per circa un trentennio ha riproposto fiabe e costruito labirinti incantati in grado di sprofondare nell’immaginazione dello spettatore, configurandosi anche come veri e propri percorsi di crescita adolescenziale ( basti pensare a capolavori assoluti dell’animazione come La Storia della Principessa Splendente, di Isao Takahata o Il Mio Vicino Totoro, di Hayao Miyazaki).
Sulla morfologia della fiaba (per dirla alla Propp) anche la prolifica saga sci-fi di Star Wars ha compiuto un lavoro di grande importanza. Essa infatti ingloba al suo interno tutti i grandi assunti fiabeschi e li rievoca assiduamente.
Fatte queste (a parere di chi scrive dovute) premesse, credo sia fondamentale cercare di capire come Quentin Tarantino, partendo proprio dalla fiaba e lavorando in maniera opposta rispetto ad opere come Kill Bill e Django Unchained, ne riscriva la struttura e ne re-interpreti il significato, creando un corto-circuito che riflette inevitabilmente sul suo senso e sul suo significato all’interno del (prima di tutto) suo cinema e (poi) del cinema contemporaneo.
In Once Upon a Time in Hollywood egli, percorrendo l’aspetto più superficiale della fiaba, crea un contesto fiabesco (la Los Angeles degli anni 70 sembra a tutti gli effetti un sogno partorito direttamente dalla mente del regista) all’interno del quale gravitano tutte le figure archetipiche della fiaba classica (la principessa Sharon, gli eroi Cliff e Rick, l’aiutante Marvin Shwartz, gli antagonisti della famiglia Manson) salvo poi lavorare sulla sua struttura in maniera totalmente contraria.
Il linguista ed antropologo russo Vladimir Jakovlevič Propp (citato pocanzi) nel 1928 scrisse un saggio di fondamentale importanza, Morfologia della fiaba ¹, nel quale identificava la composizione del racconto in 31 funzioni principali ed inalterabili nell’ordine (le cosiddette sequenze di Propp). Lo schema generale era così composto :
1 – Equilibrio iniziale (esordio) 2 – Rottura dell’equilibrio iniziale (movente o complicazione) 3 – Peripezie dell’eroe. 4 – Ristabilimento dell’equilibrio (o conclusione)
In Once Upon a time in hollywood possiamo notare come tali caratteristiche narrative vengano a mancare : il narratore tipico della fiaba, ad esempio, non è extra-diegetico ma intra-diegetico (Kurt Russel) e si palesa solo in un breve momento all’inizio del film e poi alle sue fasi finali, per passare velocemente in rassegna gli eventi post-italia e andare al momento clou della storia. Non vi è alcun equilibrio iniziale (Rick Dalton è già un attore in crisi) e nessuna rottura dello stesso, i personaggi si muovono nella quotidianità delle loro vite, compiono gesti che iniziano e si concludono senza inficiare sulla storia principale ( e quindi il concetto di fare associato all’azione non persiste nemmeno), non vi sono eroi che devono affrontare delle prove (tali archetipi fanno esclusivamente parte della finzione riprodotta dal film, quindi sia le serie che passano giornalmente in televisione sia quelle interpetate da Rick Dalton). Conseguentemente a tutto ciò non vi è nemmeno la necessità di ristabilire un equilibrio.
Centrale, in questo discorso, è anche l’assenza della cronaca nera, dell’evento, che sembra far progredire il film sui binari di un continuo svuotamento interno, di un rallentamento costante e voluto. Tarantino crea quindi una Fiaba della stasi dove la condizione essenziale e fondamentale per l’esistenza sembra essere la sussistenza di un mondo. Ci troviamo d’innanzi ad una ri-contestualizzazione del concetto di fiaba, dove quest’ultima sembra perdere il suo significato primario per cedere il posto alla materializzazione di un “sogno balocchistico”, quasi infantile, ma allo stesso tempo sincero e genuino, che trascina (insieme a tanti altri elementi) il regista verso nuove riflessioni audio-visive. L’ultimo cinema di Quentin Tarantino (quello cosidetto ucronico) esercita resistenza rispetto alla storia, la costruisce attraverso i se e i ma, e non è forse questa, ancor più di creature fantastiche, principi e principesse, una delle cose più irreali possibili? In tal senso possiamo interpretare Once Upon a Time in Hollywood come una fiaba 2.0.
IL CINEMA E L’APOCALISSE : COME RINNOVARE IL POST-MODERNO CON UN PAIO DI PINZE E UNA BUONA SALDATRICE
Nell’epoca della multimedialità e della digitalizzazione più sfrenata sono ormai pochi i registi facenti ancora utilizzo della pellicola. Nel 2011 il cineasta ungherese Bela Tarr produce quello che sarebbe stato il suo ultimo testo audiovisivo, il suo addio al cinema, Il Cavallo di Torino, opera apocalittica che, sulla scia di una sgranatura dell’immagine, di una quasi totale assenza di montaggio e del silenzio più profondo intonava la marcia funebre della visione cinematografica. Otto anni dopo, Quentin Tarantino sembra quasi voler riprendere il lascito concettuale dell’opera di Tarr per cercare di individuarne le possibili vie d’uscita e le eventuali prosecuzioni. Infatti, laddove Il Cavallo di Torino si è rassegnato d’innanzi alla morte dell’esperienza cinematografica, Once Upon a Time in Hollywood vi si oppone disperatamente, fa resistenza e teorizza una serie di strategie utili a ricucire quello “strappo” che si è creato nel contemporaneo tra opera e fruitore. I due film, per rafforzare il senso dell’accostamento, nutrono inoltre un intenso desiderio di essere fruiti nel sacro tempio della sala cinematografica (non è un caso che Tarantino possieda un cinema, a Los Angeles, nel quale proietta periodicamente grandi classici e B-movies) dove tutto ebbe inizio (d’altronde è anche questo il loro discorso, le origini : il primo sembra voler scavare in profondità alla riscoperta del principio collettivo della macchina-cinema, il secondo cerca di riportare lo spettatore al piacere della pura e sana cinefilia)
Proprio partendo dalla cinefilia, da quella incontenibile passione per il cinema e per la sua storia, Tarantino tenta di ri-assemblare (e anche, nel caso del neofita, costruire da zero) l’essenza dell’amore per la settima arte. Sarebbe riduttivo (e forse anche irrispettoso) in tale frangente parlare di semplice “omaggio al cinema” come purtroppo viene spesso fatto con questo regista. Assai più sensato e coerente, invece, parlare delle modalità con le quali egli ha sempre lavorato all’interno dell’ambito post-moderno, tra pastiche, campionamenti, citazioni, collage, dialogismi inter-testuali, meta-cinema, decostruzione ed utilizzo di materiale “culturalmente popolare” per edificare nuovi concetti. Qui il post-moderno subisce allora un’esasperazione, i suoi frammenti principali vengono sfruttati per adempiere due sostanziali scopi : creare vere e proprie immagini-simulacro ed esaurire la componente citazionista nella successione figurativa.
Nel primo caso, possiamo notare come il film sia evidentemente costruito su doppi, è esso stesso un doppio, un gigantesco simulacro che attua un processo di auto-smascheramento. Per definire meglio il termine “auto-smascheramento” prendo in prestito le parole di Paolo Bertetto² :
L’autosmascheramento è la demistificazione del dispositivo e della messa in scena: cioè è il processo di ritrovamento di qualcosa di diverso, se non di contrario, di quello che appare. E’ un processo che attiva un’interpretazione che demistifica, o meglio decodifica. Lo smascheramento è la messa in atto di un’interpretazione che rovescia le apparenze.
Questo significa che dentro l’immagine simulacro è presente una interpretazione in atto e dunque una produzione di senso quanto mai rilevante. L’autosmascheramento dell’immagine filmica facilita lo smascheramento dello spettatore, che acquista nuovi strumenti interpretativi e
decostruttivi e sa sviluppare nella processualità percettivo-interpretativa una straordinaria duplicità.
In tutte queste processualità è evidente che la realizzazione del film e il profilmico stesso non incontrano mai un modello di cui devono essere
una copia, ma semmai un insieme di elementi differenti e variamente sparsi, che hanno prevalentemente una dimensione fantasmatica e immaginaria e che contribuiscono in modi diversi alla composizione di nuove immagini filmiche. L’immagine filmica dunque va aldilà dei modelli di
immagini storicamente affermati e attua un accrescimento e una disseminazione del senso indubbiamente nuovi.
Once Upon a Time in Hollywood, quindi, si inserisce all’interno di un meccanismo che spinge lo spettatore ad allineare il proprio sguardo con quello della macchina-cinema, scovandone i processi interni e captando l’importanza (e la bellezza) del processo artigianale (si vedano, a tal proposito, i passaggi discontinui tra realtà e finzione, lo sfarfallio improvviso della pellicola tramite piccoli jump cut o il modo di recidere e poi saldare le immagini tralasciando alcuni frame)
Sul concetto di doppio nel cinema contemporaneo Bertetto dice anche :
Le identità dell’umano si moltiplicano e si frantumano, perdendo in forza e in credibilità, acquisendo nuove configurazioni simboliche, fratturate e dinamiche, smembrate e complesse, che ormai vanno nella direzione del post-umano.
Il mondo esterno appare sempre di più nei modi dell’illusione e del potenziale, come un orizzonte allucinatorio che potrebbe essere sostituito
da altri orizzonti non meno allucinatori, perturbanti e illusivi. L’orizzonte dell’immaginario si mescola con il virtuale, l’oggettivo e il soggettivo perdono la loro piena riconoscibilità e si incrinano a favore di nuovi intrecci, di nuove intersezioni, di nuovi assemblaggi che compongono strutture
inattese e funzionamenti anomali e creano nuove sintesi irregolari e nuovi conglomerati trasgressivi.
Ecco che quindi i tre personaggi principali del film potrebbero essere riconosciuti come doppi dello stesso regista, (Sharon Tate il Tarantino cinefilo, spensierato e sognante, Rick Dalton quello incompreso dalla critica e ormai alla deriva, Cliff Booth quello più sregolato e anarchico) ma anche doppi interni alla narrazione (Cliff è effettivamente il doppio di Rick, Sharon, andando al cinema, si sdoppia e si riflette nel film che sta guardando, il bene è contrapposto al male, la verità alla menzogna, la debolezza alla forza). È un continuo gioco di specchi insomma, di immagini riflesse-sdoppiate.
Questa duplicazione figurativa scorre lungo tutto il film, con gli attori che sistematicamente vedono se stessi, in televisione o al cinema.
In conclusione di questo nostro primo punto sui simulacri e sul tema del doppio, possiamo dire che a disgiungersi non sono solamente i personaggi principali del film, ma anche i piani narrativi, che diventano poi speculari nel momento in cui la piccola narrazione (Cliff che aggiusta l’antenna a Rick, Sharon che va al cinema, Rick che prova i suoi pezzi) si incastra continuamente nella grande narrazione (il film, come detto all’inizio dell’analisi, ha il tono di una grande fiaba). In tutto questo, l’utilizzo di un montaggio che non fa uso di particolari raccordi ma che semplicemente taglia la scena per soffermarsi su quella successiva, crea passaggi insistentemente ( e volutamente) irregolari, parte integrante del discorso di destrutturazione e di eccesso che vedremo nel terzo capitolo. Inoltre il triplice legame che unisce lo sguardo dello spettatore alla storia e al discorso sulla duplicazione trasfigura la chiarezza espositiva, cristallizzando il tempo e imbastendo uno sconvolgimento temporale.
In Once Upon a Time in Hollywood poi, non mancano anche gli usuali utilizzi che Tarantino ha sempre fatto del frammento post moderno, come l’inserimento di canzoni d’epoca, di locandine (vere o false) e l’autocitazione.
Abbiamo poi detto, in merito all’esasperazione del concetto di post-moderno, che Tarantino riesce ad esaurire la componente citazionista nella successione figurativa. È vero, infatti, che nel film sono presenti i classici prelievi da costruzione, ma è anche vero che Tarantino, in questo frangente, ne fa un utilizzo meno preponderante. Egli addirittura riesce a studiare un modo nuovo per “concettualizzarli”, non più sfruttandoli per costruire altro, ma consumandoli nello scorrimento dell’immagine. Il digitale, ad esempio, viene utilizzato per rigirare scene di grandi classici con attori contemporanei o intere sequenze di serie tv dell’epoca.
Altri esempi di quest’operazione di assorbimento dell’elemento citazionista nel flusso delle immagini possono essere la sequenza di Cliff Booth allo Spahn Ranch o la scazzottata tra lo stesso Cliff e Bruce Lee. Nel primo caso, la narrazione muta vertiginosamente, virando verso il Western con elementi horrorifici, nel secondo caso pare di assistere ad un piccolo cortometraggio di arti-marziali.
Il post-moderno, in conclusione, viene rinnovato. Quell’elemento di artificiosità che da sempre si è portato dietro va a disperdersi nell’alternanza narrativa.
RISCRIVERE LE REGOLE : IL NUOVO INTRATTENIMENTO CINEMATOGRAFICO
Once Upon a Time in Hollywood è un film funebre. Tutto quello che il cinema pop ci ha offerto in termini di intrattenimento in questi ultimi vent’anni qui è frantumato, disossato, scarnificato e poi ri-costruito. È una novità per Quentin Tarantino, che priva la sua opera di una trama effettiva e ne dilata la temporalità interna in modo totalmente nuovo ed inaspettato. La linearità e il dinamismo tipici del cinema mainstream contemporaneo qui vengono totalmente a mancare, tutto il film (partendo dalla sceneggiatura, passando per il montaggio e la colonna sonora, i movimenti di macchina, la fotografia e finendo con la narrazione stessa) è intenzionato a costruirci sopra un discorso.
Once Upon a Time in Hollywood galleggia in un intervallo spazio-temporale estremamente singolare. Non accadono eventi particolari, ne tantomeno si avviano delle concatenazioni (che sono da sempre la base del cinema d’intrattenimento), qui tutto, molto spesso, risulta essere decontestualizzato (dalla televisione ai personaggi).
Tutto quello che l’ultimo film di Quentin Tarantino affronta rientra in un discorso di fusione sformato ed instabile.
La scena che però permette a tale discorso di raggiungere il suo culmine è probabilmente quella dei due protagonisti (Cliff e Rick) che insieme guardano l’episodio della serie di Rick, FBI. In questo caso l’intrattenimento è sì presente, ma si trova al di là dello schermo, nella scatola televisiva, e non ci viene concesso di entrare a farne parte (l’inquadratura sulla televisione, seguendo la linea prospettica, è un piano sequenza visto attraverso la soggettiva di Rick, segno di un ulteriore allineamento di sguardo con lo spettatore, che però in questo caso si trova volutamente catapultato fuori dall’azione).
L’IMPORTANZA DEL FORMATO
Il precedente film di Quentin Tarantino, The Hateful Eight, faceva utilizzo del 70 mm Ultrapanavision, fondamentale per il discorso di decostruzione del genere che apportava. In quel caso i movimenti di macchina (specie dopo la prima metà della proiezione) surclassavano nettamente il montaggio. Era quasi un dramma da camera che portava un’intera mitologia verso la sua fine.
L’immagine del 70 mm è allargata fino all’inverosimile ed è schiacciata in altezza. Inizialmente anche Once Upon a Time in Hollywood doveva essere girato in 70 mm, ma poi si è optato per il 35. La motivazione poteva sicuramente riguardare i costi (il 70 è un tipo di pellicola estremamente costosa), ma con questo regista sappiamo bene che non ci si può mai soffermare su discorsi così superficiali, poiché con lui dietro ad ogni scelta esiste un concetto. Il 35 mm crea infatti una sorta di quadro che non pone alcun limite al movimento degli attori al suo interno e riesce a concentrarsi meglio sui loro volti (cosa che non poteva accadere con il 70, essendo poco affine al dettaglio). Non è un caso, infatti, che la pellicola sia forse la più malinconica del regista californiano, e proprio dal lavoro sulle espressioni parte questo discorso introspettivo.
Senza contare che l’ingente numero di location avrebbe richiesto comunque l’utilizzo di un formato che consentisse una certa dinamicità di spostamento tra i luoghi.. insomma, al contrario di Hateful Eight, dove l’immagine tempo si sostituiva a quella movimento, qui l’immagine movimento crea continue stasi interne, in quello che molto probabilmente è il lavoro più complesso e raffinato mai creato da Tarantino. L’intrattenimento si riscrive anche partendo dal formato.
TARANTINO E LA VIDEOLUDICA MODERNA
In questi ultimi anni è innegabile come il cinema abbia sviluppato un forte legame con certa ludologia contemporanea. La convergenza tra i due media è infatti sempre più evidente, e non si parla tanto di realismo, quanto più di linguaggio. Un prodotto come Bandersnatch, ad esempio, cerca di assottigliare il legame tra i due medium portando (in maniera discutibile) il meccanismo interattivo all’interno del film.
La saga di John Wick, invece, come già affrontato in maniera esaustiva in un articolo da Carmelo Leonardi (http://www.negatif.it/john-wick-3-parabellum-di-chad-stahelski-2019/) ,è praticamente un TPS a livelli dove il protagonista segue imperterrito il suo cammino ricaricandosi di volta in volta e facendo strage dei vari nemici.
Per non parlare poi dello svariato numero di adattamenti cinematografici tratti da videogiochi prodotti nell’ultimo decennio, da Resident Evil (Paul W. S. Anderson) a Max Payne (2008, John Moore) da Assassin’s Creed (Justin Kurzel, 2016) a Warcraft (Duncan Jones, 2016)
Già con Pulp Fiction (1995) Quentin Tarantino sembrava accennare a certe meccaniche tipicamente videoludiche, basti ricordare la scena della morte di Vincent che (grazie alla scomposizione narrativa) torna magicamente nel capitolo successivo quasi come avesse ricominciato da capo. Oppure il momento in cui Butch Coolidge deve scegliere l’arma da utilizzare per compiere la sua missione (salvare Marcellus)
In una delle sequenze finali di Django Unchained (2012) lo schiavo, privato dei suoi oggetti e tenuto prigioniero, riesce a liberarsi, ri-acquistare armi, vestiti e munizioni, e raggiungere il suo obiettivo (salvare l’amata).
In Once Upon a Time in Hollywood il linguaggio videoludico viene utilizzato come ulteriore tassello per portare a compimento il lavoro di decostruzione sulle strutture dell’intrattenimento, cosa che nei film precedenti era ancora ad uno stadio “embrionale”. Nell’opera vi è infatti un’ottica di sguardo onnisciente, quasi demiurgico, che si insinua continuamente nelle vite quotidiane dei protagonisti. Quest’ottica è rappresentata dal dolly.
Seguendo questo discorso a parer mio sensato (vista la sempre maggiore importanza che la ludologia sta acquisendo nel contemporaneo), è chiaro come Quentin Tarantino abbia avuto l’intenzione, con questo suo ultimo film, di mettersi in discussione al fine di evolversi ulteriormente come artista.
CONCLUSIONE
Ricollegandoci brevemente al capitolo iniziale di questa esegesi potrei concludere affermando che Once Upon a Time in Hollywood possiede un finale “da sogno” solo apparentemente.
È vero che la storia verrà riscritta nuovamente, e che quel dolly finale sottolinea il “trionfo della finzione” su di essa, che è praticamente tutto il senso dell’ultimo cinema di Tarantino. Ma è anche vero che questa volta la messa in scena crea due significanti fondamentali i quali spingono lo spettatore a riconsiderare i piani interpretativi. In primis Sharon Tate è inizialmente tenuta fuori campo, l’unica traccia che ne certifica la presenza è la sua voce al citofono, voce che sembra quasi provenire da una dimensione altra. Poi il cancello della sua villa si spalanca, la macchina da presa non vi entra ma compie un movimento laterale che passa sopra gli alberi per riprendere la scena dall’alto. Quest’ultimo dolly, che mostra Sharon incinta abbracciare finalmente Rick, è la conciliazione finale della finzione con la realtà, data dallo sguardo di un dio (Tarantino stesso) che ha cambiato ancora la storia.
La conclusione di Once Upon a Time in Hollywood riporta quindi in maniera circolare al tema del doppio che ha attraversato tutto il film. C’è la dolcezza ma c’è anche la consapevolezza della realtà effettiva. Il registro non è più solo uno, come in Bastardi senza Gloria e Django, ma sono due : quello della finzione (Rick che varca i cancelli del cielo per abbracciare finalmente Sharon) e quello della realtà (il titolo in sovrimpressione ci ricorda che tutto quello che abbiamo visto fino ad ora non era altro che un sogno, ed è quindi il momento di tornare alla realtà). Non un finale dolce, quindi, ma dolce-amaro. Forse Quentin Tarantino sta diventando più pessimista, malinconico e meno sognante. Sarà per quell’ineluttabile scorrere del tempo con il quale tutti, prima o poi, dobbiamo fare i conti? Sarebbe normale. Nel frattempo il regista di Knoxville ci ha regalato forse una delle più grandi opere di questo ultimo ventennio.
NOTE
- Vladimir Propp, “Morfologia della fiaba”, Einaudi, 1966
- Paolo Bertetto, “Lo Specchio e il Simulacro – Il cinema nel mondo diventato favola”, Bompiani, 2007