FEFF22 – Changfeng Town – Wang Jing (2019)

Wang Jing, giovanissima regista indipendente qui al suo secondo lungometraggio, si conferma essere tra i prospetti più interessanti del nuovo cinema cinese.

Aiuto regista di Jia Zhangke per Al di là delle montagne, Wang Jing si dimostra essere una regista che sa come maneggiare la materia cinematografica.

Con uno sguardo cinefilo, ordinato e centrato sul mondo che vuole raccontare mette in scena Changfeng Town; l’affresco sognante di una cittadina immaginaria della Cina meridionale, intrisa di magia e povera poesia, e abitata da sempliciotti personaggi un po’ strambi.
È un film corale dove tutti gli abitanti del paese entrano all’interno della narrazione per venire raccontati nella loro semplicità e stranezza volta a diventare, col passare dei minuti, irrealistica meraviglia.

Tutti si conoscono tra di loro.
C’è gelosia, cinismo e voglia di cambiamento, ma tutto rimane fermo, come se quella cittadina fosse scollegata da qualsiasi altro spazio presente sul pianeta Terra.
Si avverte che c’è una dimensione altra (la città), ma la si guarda come metà irraggiungibile e sogno irrealizzabile, perché nonostante tutto Changfeng te la porti dentro e non l’abbandoni mai, anche se ci sono i ratti.


Il passato non lo dimentichi, ti toglie la voce non ammettendo proteste.
Diventa passaggio fondamentale per la crescita.
Anche se fatto di spazzatura e cadaveri d’animale arriverà sempre una magica pioggia torrenziale a ripulirne il ricordo.

Wang Jing è brava nello sporcare la sua città di musica rock e cinema francese.
Come a voler mettere in scena una Cina puramente finzionale, simile alla memoria di ogni essere umano che estremizza e rende meraviglioso anche il ricordo più banale e semplice inerente l’infanzia felice e spensierata.

I suoi protagonisti non fanno altro che giocare, innamorarsi, sporcare la città con i loro disegni e guardare film al cinema.
Ed è proprio il film tutto, nella sua estrema eterogeneità e difficile collocazione che restituisce una dimensione puramente finta e sfalsata, che ha come unico obbiettivo quello di intrattenere noi spettatori mostrandoci l’atto dell’intrattenimento stesso.

Siamo come delle comari sedute fuori casa ad ascoltare le storie estremizzate sulla ragazza sordomuta con cui ha un flirt Xi Shan.
Ed è proprio questa la tattica vincente di Wang Jing che chiarisce e rende coerente ancor di più lo sguardo utilizzando un narratore esterno, che poi si capirà essere uno dei bambini (Rogna).
Dissolvenze e movimenti di macchina che rendono ancor più palese il senso di finto ricordo che comanda tutta la messa in scena (come il mascherino circolare che ricorda un binocolo pronto a spiare tutti i cittadini).

Forse ci sono troppe citazioni e se ne fa un uso un po’ troppo intellettualistico.
Anche se tra Le Notti di Cabiria e i 400 colpi, si riesce a restituire ancor di più lo spirito e il respiro del racconto.
Sembra un film europeo filmato tra le catapecchie di una Cina rurale e povera.
Un luogo fuori dallo spazio come i protagonisti sulla chiatta dell’Atalante di Vigò distaccati dalla città che avanza.
Personaggi con le stesse emozioni in faccia che vivono sul volto di Keaton.
La stessa triste, ma felice malinconia di un’infanzia sporca, piena di ratti e croste che però era libera e spensierata.

Un gioiellino sognante che diventa la prima vera sorpresa del festival.

(Carmelo Leonardi)