Giorni Perduti (Billy Wilder, 1945)

Un occhio lontano, quello di Billy Wilder, osserva New York, nella prima inquadratura, una città che è simbolo superficiale dell’America e che rappresenta, nel discorso, un punto di partenza ben preciso; Wilder apre il film sulla silhouette in bianco e nero di New York e poi, con un movimento di macchina che è anche vettore del discorso, si sposta attraversando una finestra all’interno della casa del protagonista, Don Birman. 

Wilder vuole scavare dietro quell’immagine-paesaggio che è New York, che è l’America, superando le pareti spesse che separano il mito dalla realtà e mettendo in scena una storia che rappresenta la tragica condizione di un uomo in rottura con le mitologie vigenti. Sì perché Giorni Perduti non è un film sull’alcolismo, bensì sullo smarrimento di se stessi nel momento del crollo delle mitologie imperanti, delle illusioni e nell’incursione del mondo della notte e dell’incubo. Il fallimento professionale, come scrittore, e lo stato d’insoddisfazione di Don, che fanno parte della “preistoria” del film e corrispondono alla dissoluzione dei feticci quali la carriera e la felicità, del self-made man e dell’american dream, pongono le basi nella rappresentazione di Don come irrecuperabile alcolista. Nonostante gli sforzi delle poche persone che provano a salvarlo da se stesso, l’arco narrativo coprirà un weekend che sarà, come evoca il titolo originale, un lost weekend, forse, più che della perdita, nel segno della perdizione. Don, dopo aver esplorato i feticci e dopo aver decretato, in ultima istanza, la loro inconsistenza, cade inevitabilmente in un circolo vizioso di dissoluzione e autodistruzione, di menzogne e di allucinazioni. La crisi del soggetto nel film assume senso in una dimensione visiva d’impronta espressionista che si manifesta in incubi terrificanti e deliri schizofrenici, segno di una personalità che sta smarrendo la sua lucidità e il suo contatto con una realtà che non percepisce più come vera: la celebre sequenza con il topo e il pipistrello, per esempio, concretizza la scissione interiore del protagonista, la perdita di contatto con la realtà, manifestando un’ambiguità identitaria confessata dallo stesso Don: «Esistono due Danny: Danny lo scrittore e Danny il bevitore».

La regia di Wilder è una delle più belle della sua carriera perché riesce a far dialogare ogni soluzione espressiva e conferire a tutte le scelte profondi strati di senso. Don, in questa grandiosa messa in scena, si ritrova sempre schiacciato tra lo sguardo impietoso di Wilder e il contesto che lo circonda, in situazioni che vanno a suggerire sia il fardello delle pressioni di una macchina, quella sociale, che deve andare avanti a ogni costo, sia l’incombenza delle pulsioni autodistruttive. Nel primo caso, una sequenza emblematica è sicuramente quella della cabina telefonica, dove Wilder riesce a suggerire questa pressione con un uso formidabile della profondità di campo: Don è soffocato, lateralmente, dai confini diegetici della cabina, che riducono il taglio dell’inquadratura e, verticalmente, è schiacciato verso lo schermo da una situazione che prende luogo alle sue spalle, dai genitori di Helen, con cui si dovrebbe incontrare, al centro della profondità dell’inquadratura, e da Helen, sullo sfondo.

Allo stesso modo, la presenza delle pulsioni si manifesta, per esempio, quando Don entra in un bar e rimane come incastrato, tra le sagome delle bottiglie dietro cui si nasconde la camera, o ancora, tra i rombi metallici di un’inferriata.

Nella lettura di un film come Giorni Perduti è importante sottolineare l’enorme lavoro di Wilder nel dialogo tra persone e luoghi, espresso come si è detto nella profondità di campo e in alcuni impedimenti di campo diegetici, ma anche nella rappresentazione di Don che, paradossalmente, mentre dialoga con gli oggetti e le forme, risulta sempre come estraniato, alienato, dal luogo in cui si trova; ne è manifestazione lampante la messa in scena di New York e delle camminate per la città in preda all’astinenza. Quando Don vaga, disperatamente, alla ricerca di una banco di pegni, alla città, nella sua rappresentazione realistica, è conferita una sorta di “ostilità dormiente”, nel senso di una società indifferente e sonnambula che abbandona il protagonista ai suoi deliri e alle sue spinte pulsionali, osservandolo dalla sua immobilità.

È importante rilevare che Wilder, qui, non intende certo condannare Don, bensì, viene trasmesso il sentimento che il processo autodistruttivo di Don corrisponda, al contrario, a una conseguenza delle dinamiche “sotterranee” del contesto che lo circonda. Può aiutare qui Deleuze, che dice: «la degradazione realista, nella modalità americana, doveva prendere forma nello stampo ambiente-comportamento […]. Non esprime una sorte dell’affetto o un destino delle pulsioni, ma una patologia dell’ambiente e un turbamento comportamentale». Wilder condanna la società americana, una macchina che fagocita ciò che può ostacolare il suo cammino oppure, con indifferenza, abbandona all’autodistruzione quei soggetti smarriti proprio a causa delle sue stesse false mitologie. Questo percorso, in cui l’immagine di un’America come promised land viene disintegrata, così come tutti suoi valori premianti, porrà le basi per l’atto finale, quella tragica fine che però non arriverà mai, proprio in virtù di un’immagine che si rinsalda sempre: il suicidio di Don. Poco prima di questo “atto definitivo”, il barista, ormai intimo confessore di Don, gli riporta provvidenzialmente la macchina da scrivere, restaurando, ancora una volta, l’illusione di un talento, di una carriera, e di fatto interrompendo il suicidio. In questo finale risiede una delle cose più grandi del corpus wilderiano: tutto il tragitto del film e tutte le sue implicazioni, che hanno ridotto in brandelli un falso sociale e disintegrato l’immagine di Don, così come un happy ending che arriva come una risoluzione approssimativa, sbrigativa, poco credibile, riesce a insinuare nello spettatore, sotto pelle, che la salvezza finale è qualcosa di incredibilmente consolatorio e posticcio, perché segue, per dirla con Maurizio Grande, «il passaggio dallo scacco della rinuncia e della disperazione di una ricerca fallita alla rinuncia di una sopravvivenza accettata comunque e nonostante tutto».
In conclusione, dunque, la messa in scena di Wilder riesce a palesare, o quantomeno a rendere percepibile, un ritorno quasi coercitivo a uno stato dell’ordine che, in una dinamica doppia di lettura, palesa la voracità del gioco sociale e risponde alle regole di un sistema, quello hollywoodiano classico, dove l’happy ending costituisce un must etico narrativo.

L’ineluttabilità di questo meccanismo spietato è simbolicamente intesa nella figura del cerchio (una figura che compare più volte all’interno del film, come la forma dei bicchieri, o, a livello metaforico, il “circolo” vizioso del protagonista), figura che si rivela anche in una “dimensione narrativa” nella sequenza finale, poichè Wilder chiude il film così come l’aveva aperto, in un percorso a ritroso che dalla stanza, passa per la finestra, e poi ritorna sulla silhouette di New York,. Adesso però tutto è diverso, tutto è corrotto, e l’immagine di New York, dell’America, è la stessa e non lo è più.