Gokseong – Na Hong-jin

L’ultima fatica del regista sudcoreano, lanciato nel paesaggio cinematografico internazionale con il dirompente The Chaser (2007), si pone come naturale estensione della sua poetica. Seppur breve, infatti, la filmografia di Na Hong-jin rivela un percorso ben preciso:
è la parabola discendente di un’umanità che si muove convulsa all’interno della sua piccola realtà, sospinta (o trascinata) da una congenita volontà di sopravvivenza. È proprio da questa volontà dei personaggi, maggiormente chiamata in causa dalla loro condizione ai margini, che scaturirà una convergenza con situazioni-limite, da cui l’innesco di una lotta contro forze inesorabili e sfuggenti (sebbene sempre tangibili a livello estetico), una lotta tragicamente vana.

The Chaser
The Yellow Sea


Quello creato da Hong-jin è perciò un tragitto impostato su una rotta definita: prima The Chaser (2007), che rivelava subito l’assassino, quasi “annullando” la detection, ed esplorava lo struggimento del protagonista nell’impossibilità di sconfiggere quelle forze malvagie rimanendo all’interno delle “regole del gioco”; poi The Yellow Sea (2010), dove il protagonista si ritrovava presto soverchiato da un meccanismo più grande, con poteri che confluivano e corpi che si moltiplicavano, in una perpetua lotta–oltremodo fisica e quindi più evidentemente simbolica–per una sopravvivenza costantemente messa a repentaglio da fattori sconosciuti.


In questo tracciato di progressiva astrazione costruito da Na Hong-jin, Gokseong giunge come naturale e logico proseguimento: l’esplorazione del genere horror si rivela una scelta del tutto consapevole, visto l’intento di astrarre e le possibilità metafisiche che il genere concede. Anche la struttura investigativa, non a caso, veste la detection di una funzione estremamente concettuale, una ricerca di indizi, ma soprattutto di forme, che ha l’obiettivo di conferire sembianze intelligibili alle funeste dinamiche del mondo. Lo sviluppo del personaggio di Jong-goo sembra comprovare l’intento di astrarre a un livello più speculativo la forma dell’indagine: prima calato nella narrazione come poliziotto, che giustifica una detection intesa in senso stretto, Jong-goo (nel momento in cui gli eventi si ripercuotono sulla figlia) subisce un contraccolpo e si spoglia di quell’identità “istituzionalizzata”, trasformando la detection in una necessità, un’impellenza tutta umana.
A fronte di tutto ciò, di un racconto che si muove tra pieghe metafisiche e di un’investigazione spogliata in tutta la sua umanità, si potrebbe convenire che quella di Na Hong-jin è una disincantata, o meglio, pessimistica messa in scena di un’impotenza incontrovertibile, immutabile dell’essere umano di comprendere i meccanismi maligni che tessono le fila degli eventi; come in The Chaser non si poteva impedirli e in The Yellow Sea non si poteva né scappare né combatterli.

Come sempre accade nel cinema, o nell’audiovisivo in generale, è osservando le dinamiche dello sguardo che si comprende ancora più profondamente un’opera: Gokseong è disseminato di campi lunghissimi che ritraggono il verde e oscuro paesaggio nel quale sono immersi gli eventi e, anche in relazione alla quantità delle inquadrature dedicate, è intuibile che si tratti di una scelta formale non trascurabile.

Na Hong-jin sembra non solo rinchiudere il racconto all’interno di un microcosmo, ma conferire un vero e proprio carattere quasi senziente e maligno all’ambiente (non a caso il titolo del film, Gokseong, identifica il nome della piccola città dove il racconto prende vita).
Data questa connotazione alle larghe vedute dei boschi e delle montagne, i campi lunghi che invece sono rivolti verso l’interno, che osservano i personaggi da lontano–con la camera immersa nell’oscura ombra degli alberi–sembrano essere il controcampo di quel paesaggio, come l’occhio infausto di un’entità ostile e tangibile.

Dunque, ciò che il regista sembra voler infondere è la percezione di un male totalizzante, che attornia e guida quel microcosmo (o che forse è il microcosmo stesso), in cui i personaggi sono avvolti, costretti in una condizione di smarrimento. La perdita di coordinate, della capacità di discernimento, e quindi della capacità di scegliere, sembra affondare le radici in qualcosa di profondo, una vischiosa condizione d’incertezza in cui le risposte sembrano materializzarsi e svanire, in cui tutto appare dominato da forze eternamente sfuggenti.
In conclusione, Na Hong-jin dipinge un universo senza speranza, dove l’unica sporgenza cui appendersi per non scivolare nell’abisso dell’indeterminatezza la si trova nell’irrazionale, nell’astrazione; ed è proprio questo sentimento di rassegnazione che trasparirà nelle agghiaccianti battute finali: un abbandono amaro tra le braccia di un male mitologico che risiede nelle viscere del mondo e che prende forma in un terribile, meraviglioso, anacronismo: Mefistofele che guarda il mondo attraverso l’occhio di una camera.

(Matteo Salvetti)