Grass, di Hong Sang Soo

Esiste un bar spoglio e con pochi oggetti, un luogo che funziona da centro ambientale per un diversificato campionario di esseri umani e le conseguenti dinamiche relazionali di causa-effetto. Una giovane donna, intanto, ascolta e trascrive i pensieri, le parole, gli sguardi, il linguaggio del corpo e la dialettica di questi uomini.

Un’introduzione necessaria per inquadrare la sinossi di Grass, penultima opera del prolifico cineasta sudcoreano classe 1960, presentato alla Berlinale68.

Hong Sang Soo, regista ancorato a una poetica di impronta tenacemente emotiva eretta da un sentimento di amore verso le intime storie dei personaggi che racconta, così sentitamente umani, così visceralmente autentici, punta anche questa volta a uno stile mimetico e nascosto, morbido come una piuma e lineare nei pochi blocchi narrativi, sapientemente intriso di un’umanità sfaccettata, complessa, acuta, lucida, mai banale.

È un’attenta riflessione, più che una scientifica analisi, sulla vita di tutti i giorni e sui contatti umani che da essa scaturiscono. Non tutti, però, sono predisposti a subire il godimento del quotidiano, alcuni preferiscono stare in disparte, osservare passivamente e analizzare razionalmente.

Da qui nasce il secondo ipotetico regista del film, A-Reum, la ragazza seduta al tavolo che assimila passivamente le discussioni e i gesti dei passanti del bar, impossibilitata ad amalgamarsi con gli altri esseri umani anche nel momento conclusivo in cui si è tutti seduti uno accanto all’altro, formando una grande linea comunitaria che chiude il grande cerchio della vita.

Probabilmente preferisce dirigere e stare dietro le quinte, forse riunendo i frammenti di vita ascoltati per la realizzazione di una sceneggiatura e un libro, o chissà altro. Una sorta di alter ego dell’Amin di Mektoub My Love, anche lei come il ragazzo del film di Kechiche sembra essere un’artista/aspirante scrittrice.

Il bar in questi termini assume un vero e proprio significante del film stesso, un posto leggiadro, privo di caos e sospeso nel tempo e nello spazio (l’efficace B/N fa la sua sporca figura). La regia, calibrata e precisa, ne diventa l’assistente secondario, composta prevalentemente da campi medi, quinte, zoom e raccordi di sguardi in cui il fulcro dell’azione sono esclusivamente le persone stesse che compongono simmetricamente il quadro, limitando la profondità di campo.

È piuttosto evidente in Hong Sang Soo la smisurata voglia di raccontare l’essere umano, di mostrare le virtù e i vizi, le debolezze e la voglia di vivere, la fragilità esistenziale che comporta la vita terrena. L’obiettivo e l’identità della sua poetica travalicano lo stesso strumento cinematografico usato solo come mezzo e tramite. Un cinema imponente nella sua romantica semplicità. Impalpabile come il mistero e la sensibilità della vita.

(Paolo Birreci)