Gretel & Hansel, di Oz Perkins (2020)

In un medioevo non proprio precisato, sognante e fiabesco, si svolge la storia dei due fratelli Gretel e Hansel costretti dopo la morte del padre a cercare un lavoretto per sostentarsi.
Una volta fuggiti dalla furiosa madre e dalla povertà che li avvolge, si troveranno spaesati in un mondo ben più grande di loro; sempre pronto a presentarsi con cattiveria davanti ai loro occhi con mille pericoli e tentazioni.

Nell’offerta post quarantena c’è stato anche il film di Oz Perkins, figlio dell’Anthony di Psyco, che con Malick, Nolan, Apatow è uscito nelle nostre sale parecchio in sordina a causa del periodo estivo e del clima difficile che stanno vivendo le sale cinematografiche.
Tra i pochi biglietti strappati nei multisala e le riaperture posticipate dei cinema più piccoli Perkins non ha ricevuto la visibilità che in realtà si meriterebbe.

Il suo è un instant cult da scoprire e riscoprire, che lo lancia finalmente tra i nomi autoriali più importanti del cinema horror contemporaneo.

Già col thriller psicologico Blackcoat’s daughter (February – l’innocenza del male) aveva dato ampia dimostrazione dell’ottima capacità di giocare con le proprie narrazioni, che combina tra passato e presente tramite un ottimo gioco ad incastri, puntualmente condite da uno stile visionario e sognante fatto di continue sfocature, grandangoli stranianti, tagli veloci e continui neri al montaggio.

Il suo è un cinema appunto di sfocature, di fantasmi che vivono nascosti in solitudine all’interno delle loro case.
Un cinema fatto di corpi che si aprono per far uscire fuori dal petto i poteri sovrannaturali che contengono al loro interno.
Come per la Johnson di Guadagnino e la sua apertura del petto, quella continua ricerca di Perkins del fuoco sui suoi soggetti diventa modo per far finalmente apparire i suoi protagonisti, farli esistere.
Accettarli e farli crescere in un mondo in cui sono stati ingabbiati e di cui ora diventano padroni.

È come se ogni suo protagonista sia una scheggia impazzita fuoriuscita dalla mente schizofrenica dell’interpretazione più nota del padre, Norman Bates.
Un ragazzo per bene (“che non farebbe male ad una mosca”), ma che schiacciato dalla propria madre prende coscienza di se stesso e della situazione terribile che vive, ed in un unico momento di lucidità diventa assassino.
Da quel momento in poi Bates diventerà un tutt’uno con ciò che lo circonda.
Diventerà il motel e la lugubre villa, diventerà la sua stessa vittima.
Come se tutto ciò che lo ha accompagnato in vita possa appartenere solo a lui che non è riuscito mai ad ottenere amore.
Che non ha mai avuto niente.
Qualsiasi donna si appresti ad entrare nel suo campo visivo diventa preda.
Preda per il rapace e nutrimento per il suo occhio voyeur.

Su questi schemi impazziti si costruisce il cinema del figlio, che mette in scena fantasmi che non riescono ad abbandonare le mura di casa e che cercano il loro posto nel mondo.

“ Ho sentito me stessa dire… che una casa abitata dalla morte non potrà mai più essere comprata o venduta dai vivi. Può solo essere presa in prestito dai fantasmi che sono rimasti lì.”

Incipit di “I Am the Pretty Thing That Lives in the House”, di Oz Perkins

Gretel e Hansel hanno difficoltà ha lasciare la madre e la propria casa.
Diventano spaesati in mezzo ai boschi, con Hansel che continuamente ricorda come la colpa di questo esilio sia della sorella, scappata dalla casa di un vecchio molesto che le aveva offerto “lavoro”.

I due non faranno altro che cercare un posto dove stare.
Un posto che possa garantirgli sopravvivenza.

Sarà così tanta la fame che attirati dai prelibati banchetti della strega si intrufoleranno all’interno dell’abitazione.
Qui inizierà una vera e propria lotta interna, dove Gretel inizierà a credere in se stessa e a lottare per diventare la “nuova” padrona di casa.

Perdere l'orientamento, nutrirsi del male.

Di fatto, come accennavo già ad inizio pezzo, quello di Perkins potrebbe essere una versione più fiabesca e per adolescenti del horror di Guadagnino.
Manca solo la parte più politica dell’opera del regista italiano, ma di fatto i punti in comune (narrativamente parlando) sono molteplici.

Gretel e Hansel è una storia di formazione, e già Sophie Lilis aveva interpretato un ruolo simile in “It”, che fonda le sue radici su un racconto classico che viene totalmente riformulato in chiave moderna.
Percorsi da folk horror alla Eggers che ruota attorno ad un compromesso piacevole tra lieve utilizzo dei jumpscare da cinema commerciale e cinema autoriale che lavora più sulle atmosfere del tutto, con uno stile di regia sorprendente che risulta vero punto di forza del film.

Come in "It - Chapter 1", Sophie Lilis si trova davanti alle sue paure più inconsce, le attraversa, le scopre e piano piano le domina.
Diventa finalmente donna.

Le scelte registiche aiutano di parecchio la narrazione e la costruzione dei personaggi che vengono totalmente svuotati di tutta la linfa vitale che hanno in corpo.
È come se lo stesso spettatore possa sentire il brontolio del loro stomaco e la confusione mentale che li assoggetta.
La totale rassegnazione alla morte e a scomparire in quella profondità di campo sfocata dove ormai privati di qualsiasi interesse per la vita anche la folle crudeltà viene normalizzata.
È come se i demoni che devono affrontare nel loro cammino siano quisquilie rispetto a ciò che hanno abbandonato a casa e al dolore che provano all’interno.
Procedono nella loro ricerca dove sobbalziamo ad ogni passo, ancorati al corpo di Gretel come la macchina da presa, incapaci durante il percorso di riconoscere il male di cui i ragazzi si nutrono.

Normalizzare la violenza, vivere il caos svuotati da ogni impulso vitale.


È un gioco dal colore smorto, crudele e folle che sembra uscito spiritualmente da qualche progetto d’animazione di Jimmy ScreamerClauz.
È un orrore che scorre sottopelle e che con una semplicità disarmante tratta tematiche forti, portando sotto i riflettori definitivamente un regista capace arrivato alla prima opera un po’ più quadrata della sua filmografia.

(Carmelo Leonardi)