HOMEMADE – Il lockdown attraverso 17 sguardi differenti

Homemade nasce come un esperimento, frutto della mente dei fratelli Larrain e Lorenzo Mieli, per narrare in presa diretta la pandemia attraverso lo sguardo di 17 registi differenti.  

Salta subito in evidenza questa acuta, e a suo mondo raffinata, scelta di lasciare ogni singolo corto nella propria lingua madre, senza la possibilità di una traccia doppiata come alternativa.

Clichy-Montfermil (Francia): la prima prospettiva che apre questa lunga carrellata di cortometraggi è quella di un adolescente francese. Ladj Ly ci introduce immediatamente all’interno degli spazi che compongono il suo mondo: sulla scrivania sono sistemate pile di manga, mentre le pareti sono tappezzate da locandine di anime e fotografie di ricordi non molto lontani. Pur essendo passati solo pochi secondi, è già possibile intuire che siamo all’interno della sua unica realtà attiva di quelle giornate, dove esegue la sua routine circondato dalle passioni che l’hanno plasmato. Sarà un drone il suo strumento di evasione. Una scelta non banale, certamente figlia del suo lavoro precedente (Les Misérables) che qui lascia intendere la possibilità di osservare il mondo esterno attraverso lo schermo. La realtà francese, nei movimenti della mdp, rimane a un’altezza aerea, quasi confinata. Documenta i conflitti delle strade di Montfermeil e il messaggio che giunge è fin troppo specifico: “Se sono tempi difficili, per chi lo sono?” Due forme di sopravvivenza in netto contrasto, piazzate in interni ed esterni, ma accumunate dal loro rispettivo senso di isolamento.

Voyage Au Bout De La Nuit (Italia): se il corto di Ly funge da documento storico e ne esce come una semplice e adeguata introduzione, è con l’arrivo del successivo, con la Roma di Sorrentino, che la creatività sfrutta i suoi spazi, ritrovando il gusto dell’artigianalità. Certamente il corto che più fra tutti coglie a pieno lo spirito e le potenzialità di questo progetto. In mancanza di una presenza fisica attoriale, il regista campano non rinuncia all’interazione fra i suoi due personaggi protagonisti, riuscendo a caratterizzare due statuette di cera, raffiguranti Papa Francesco e la regina Elisabetta. Anche qui ritorna uno schermo, quello dove entrambi si vedono rappresentati (al punto che vengono citate due prodotti della stessa Netflix: (“I due Papi” e “The Crown”). Uno volta spento quello, subentra la raffinata penna sorrentiniana a evidenziare quelle peculiarità comuni e ordinarie insite in ogni essere umano. “Il mondo inizia a capire cosa significa essere confinati”. Che siano ettari o metri quadri, spazi ampi o ristretti, la forza dell’ironia tira fuori le mancanze di due figure così illustri. La delizia del racconto arriva a farlo apparire quasi come una storia animata in stop motion, che raggiunge il suo picco poetico in una danza di “bertoluccionana” memoria, quella attraverso cui, per il regista emiliano, “tutto diventava possibile”. Anche ridurre un distanziamento.

The Lucky Ones (USA): a questo punto si direbbe che il progetto abbia già raggiunto uno dei suoi punti più alti, tanto da suscitare aspettative similari per i successivi corti che seguiranno. Usciti da Roma, adesso ci ritroviamo nella Los Angeles di Rachel Morrison. Quello che mette in scena è certamente un risultato derivativo, che cerca di rifarsi ai maestri del cinema più evocativo (ispirazione più evidente: il cinema di Terrence Malick), ma non si può dire che, nel suo piccolo, non venga fuori un racconto a suo mondo toccante, più accessibile a un pubblico meno smaliziato e navigato. Nella lettera (letta in voice over) di una madre alla sua bambina, la libertà è resa assimilabile attraverso la forza evocativa dei ricordi. L’importanza del nucleo infantile è messo in primo piano, l’importanza di mantenere intatta la forza della sua purezza. Una madre rievoca i suoi primi 5 anni di vita, anch’essi segnati da un periodo difficile. Ma sceglie di non soffermarsi su questo dettaglio, quanto sull’ingenuo punta di vista col quale un bambino/a si trova a osservare i momenti di quel periodo idilliaco della propria vita. Attraverso la lettura di questa lettera, la madre cerca di lasciare che la figlia erediti le sue stesse sensazioni. A lei non importa che in quella fascia d’età siano chiare le condizioni del mondo che la circonda, quanto piuttosto il privilegio di poter osservare il tutto come se fosse sempre bellissimo. Un’infanzia alla quale non deve essere permesso di venire intaccata dalla materialità della vita adulta: forgiare un ricordo assume un valore significativo, al punto che anche delle intere giornate passate in pigiama possono risultare essenziali e cariche di affetto e creatività.

Last Call (Cile): con l’arrivo di Pablo Larraín aumenta il minutaggio (che raggiunge i 10 minuti), ma anche il livello rispetto ai corti visti sino ad ora e a quelli che seguiranno. Minutaggio che sarà un aggravante per gran parti dei corti successivi, non di certo per questa piccola perla girata a Santiago. Ultimo caso singolare e più vicino al risultato sorrentiniano, sin dalla scelta dei mezzi che qui vengono adoperati. Perché se nella controparte romana si respirava la riscoperta di un’artigianalità mite e antica, qui Larraín attualizza il mezzo, adoperando le potenzialità dei social, attraverso lo split screen di una videochiamata. Il soggetto è semplice: un uomo che vive in una casa di riposo confessa a una sua vecchia fidanzata di essere ancora innamorato di lei. Il monologo di quest’uomo ha sin da subito una forte carica autoriale, nella disinvoltura delle sue parole è evidente il rimpianto di uomo che si trova a fare i bilanci di un’esistenza che è andata diversamente da come lui avrebbe voluto. Una confessione avulsa da ogni tipo di inibizione che vuole lasciare sfogo all’essenzialità della vita. Una passione che lo tiene in vita, ancora assettato da un’esigenza non solo sentimentale, ma anche fisica e passionale. Ma che lentamente si rivelerà essere soprattutto una lotta con la propria solitudine.

Couple Splits Up While In Lockdown LOL (Portogallo): col quinto corto Rungano Nyoni inserisce anche la componente più goliardica e, a suo modo, scanzonata di questa operazione. Non si lasciano aperte particolari chiave di lettura, una coppia si lascia durante la quarantena e il tutto viene comunicato alle rispettive amicizie tramite la schermata di una conversazione telefonica (tinder). L’aspetto interessante è il continuo silenzio che permea la lettura di queste schermate, un silenzio che suggerisce l’assenza di una vita sociale, dove l’unica forma di comunicazione è comunque viziata dalla passibilità e la noia della parola scritta. Quindi una pigrizia nel parlato anche attraverso le mura domestiche della propria abitazione (Lisbona), un senso di vuoto colmato da un vuoto ulteriore: l’ozio.

Espacios (Messico): Con Natalia Beristáin (Mexico City), anche nel sesto il livello rimane distante da quello di cui i primi corti ci avevano relativamente abituati. Stavolta lo spazio vede una bambina trascorrere un’abituale giornata in casa, sperimentando la propria creatività con tutto quello che le capita sottomano. A venirne fuori è uno dei risultati meno ispirati, più che altro perché è la propria la visione della bambina a non essere messa al centro di tutto. Quella che vediamo è la percezione di un adulto sul suo mondo, e per questo ne rimaniamo per tutto il tempo estranei e annoiati.

Casino (Germania): col settimo corto è la volta di Sebastian Schipper. Siamo all’interno di un’abitazione berlinese, dove un uomo solo in età avanzata cerca di sopperire la noia vestendo (letteralmente) diversi ruoli, dal musicista al giocatore di scacchi fino al semplice casalingo, cercando persino di lasciarli interagire tra di loro. A venirne fuori è una certa ridondanza, in linea con quella che si trova a vivere lo stesso protagonista.

Last Message (Giappone): se il corto di Rachel Morrison ne era uscito in maniera dignitosa, pur essendo un surrogato del cinema malickiano, con Naomi Kawase il risultato è ancora più spento e privo di mordente. Il suo lavoro si preannuncia sin da subito didascalico, tanto da mettere in chiaro lo stato di emergenza nazionale piuttosto che permettere allo spettatore di intuirlo da solo. Nonostante la bellezza di Nara faccia da cornice alla contemplazione di un ragazzo sulla vita umana, gli intenti della regista mirano sin troppo a voler rimarcare un senso di ansia e disagio, al punto da lasciarli solo in superficie. A venirne a mancare è proprio un senso di immersività da parte dello stesso spettatore. In assenza anche di una calibrata padronanza dei mezzi, l’autrice non riesce a comunicare quello spazio contemplativo che per tutto il tempo vorrebbe raggiungere.

Ferosa (Scozia): ci trasferiamo in Scozia, a Glasgow, dove il nome di David Mackenzie dovrebbe instillare una certa aspettativa. In realtà non è la mano di un cineasta a mancare in questa breve storia, ma proprio la spontaneità dei corti precedenti. Sin dai primi dialoghi di questi due fratelli che si trovano a condividere momenti di noia e sporadici contatto sociali con l’ambiente esterno, si ha l’effetto in uno scenario programmatico e preimpostato. Non sentiamo più le mura che avvolgono i personaggi, perché li vediamo esclusivamente rappresentati. Non sono più reali, ma due semplici attori che interpretano un rispettivo ruolo già scritto in partenza. Nonostante la mano navigata del suo autore, è proprio la scelta di ricorrere a delle ambientazioni esterne a penalizzarlo maggiormente. Il lockdown non è più percettibile.

Penelope (USA): ironicamente, a seguirlo è uno scenario molto più estremo, dalle tinte vagamente post apocalittiche. La regista è Maggie Gylllenhall, che filma un uomo solo nel Vermont (USA) dove il virus è arrivato ad attaccare il sistema solare. Già da questa premessa inizia a perdersi quel senso di creatività e di singolarità che poteva avere una storia raccontata all’interno di quattro mura domestiche. Adesso la storia è portata a un livello successivo, fuori luogo, che allontana lo spettatore piuttosto che avvicinarlo alle dinamiche del racconto.

Mayroun and the unicorn: con l’undicesimo corto sono due i registi (Nadine Labaki e Khaled Mouzanar) dietro la macchina da presa, ma sostanzialmente l’idea finale è quella di un padre che filma sua figlia mentre gioca col suo unicorno giocattolo, in attesa che quest’ultimo la liberi dalla sua “prigionia”. Risultato abbastanza analogo a quello del corto di Natalia Beristáin. Anche qui rimaniamo esterni spettatori del suo mondo e non vengono sfruttate le potenzialità di una bambina che vive il tutto attraverso la propria immaginazione. A fuoriuscirne è giusto un senso claustrofobico, dozzinale.

Annex (USA): possiamo considerarci ben lontani dallo spirito che questo progetto “Homemade” puntata a raggiungere. Siamo a New York City, dove due donne scoprono il corpo di un misterioso sconosciuto in riva al mare e decidono di ospitarlo nella loro dimora. La sterzata, a questo giro, è verso il nucleo del sovrannaturale, con tanto di plot twist finale. Per ammissione degli stessi autori, un simpatico esperimento girato fra amici, ma anche il più dimenticabile per gli spettatori che si aspettavano certamente dell’altro.

Johnny Ma (Messico): con questa videolettera di un figlio a sua madre, che probabilmente non vedrà mai più, ci troviamo a San Sebastiàn del Oeste. Ma soprattutto, a recuperare il senso di questo progetto ad ampio respiro. Johnny Ma riporta la percezione dell’isolamento, l’assenza di una prospettiva futura. Il protagonista rievoca aneddoti della sua infanzia, dove si evince una madre assente, e che adesso si trova dall’altra parte, a dover vivere l’assenza di un figlio lontano. Stavolta l’ambientazione esterna riesce ad essere valorizzata e si fonde con l’interiorità del protagonista mentre legge la sua lettera. “Mentre il mondo interno aspetta, io non devo fuggire”: da queste parole si potrebbe definire lo stato d’animo di un uomo che è già riuscito a raggiungere il suo equilibrio e a cui non resta che mandare questo ultimo “messaggio in bottiglia” per una madre lontana. Uno dei documenti più sentiti, essenziali, che non mirano al sensazionalismo gratuito.

Crickets (USA): Los Angeles, location interna, una donna vive uno stato di continuo dormiveglia in preda all’insonnia e tormentata dai grilli. Kristen Stewart, qui sia attrice che regista, sfrutta da subito la sua padronanza scenica attraverso un suo primo piano d’impatto. A seguirne è un perpetuo dialogo con sé stessa. “E’ come se i miei sogni sognassero”: nella banalità di questa affermazione sono presenti tutte le potenzialità che il corto non riesce però a sfruttare a dovere. Il montaggio serrato ne genera un aggravante, non mantiene intatta la forza della sua espressività. Le ambizioni non appagano quanto dovrebbero, e il senso di disagio sopraggiunge perché cerca (fallendo) di rendersi visibile, piuttosto che implicito.

Unexpected Gift (UK): potrebbe essere considerato come il primo dei tre corti conclusivi, quelli più sommari e a loro modo riassuntivi sull’intero progetto. La regista Gurinder Chadra porta in scena una sorta di diario del periodo vissuto in pandemia, nella sua abitazione londinese, tra perdite, dolori e la ricerca di una spensieratezza nei momenti passati coi propri figli. E’ certamente il frammento dal retrogusto più genuino, di natura quasi umanistica e divulgatoria. Uno spot pubblicitario motivazionale.

Algoritmo (Cile): fra le pratiche più frequenti che abbiamo avuto modo di osservare durante questi mesi di pandemia, una delle più indicative e conciliatorie è stata senza dubbio quello del flashmob sulle verande di tutto il mondo. Sebastiàn Lelio nel suo corto opta per uno sfogo più solitario, filmando una donna sola in casa (a Santiago) che riflette sull’influsso che la pandemia sta avendo sulla gente, ma attraverso il canto. In qualche modo torna la creatività e prende forma un mini-musical abbozzato, di quelli che si sperimentato quotidianamente sotto la doccia. Il canto diventa uno stato di sopravvivenza e sopportazione, ma anche un mezzo per stemperare la tensione in un periodo così difficile.

Ride it out (USA): siamo alla conclusione, dove lo spettatore non solo viene avviato alla fine dell’operazione, ma anche alla contemplazione del silenzio. Ana Lily Amirpour filma una donna che gira in bicicletta, in una Los Angeles apparentemente tranquilla, dove regna un vuoto a suo modo inquietante. L’impronta qualitativa arriva anche nella scelta di utilizzare Cate Blanchett come voce narrante. Quella che inizialmente parte come un’attività motoria finalizzata riattivare la circolazione e ridarsi un senso di libertà, aggiunge una riflessione: cambiare prospettiva alla realtà è compito degli artisti. Da qui la summa, il senso compiuto di un’operazione altalenante, in parte riuscita, in parte no, ma che dalla sua mantiene il senso di una forte testimonianza storica.

Ricki Loglisci