Il cinema è un organismo in perpetua evoluzione

La grande epidemia che ha travolto l’umanità da diversi mesi a questa parte, sta alimentando innumerevoli discussioni su cosa ci attenderà una volta che l’emergenza sanitaria avrà termine. Ci si domanda se il sistema della distribuzione classica attraverso le sale sarà destinato a collassare o essere ridimensionato, se il cinema che siamo abituati a fruire affronterà modifiche drastiche. Ma se questa rivoluzione fosse già in atto? Se il virus non fosse altro che uno strumento per velocizzare questo processo?

Siamo in un periodo dove il cinema si sta trasformando in un lungo flusso di coscienza senza confini, in una frammentazione degli spazi, in un collasso delle narrazioni che portano a una perdita di definizione delle immagini. La linearità narrativa sta scomparendo a favore di un’indagine mistificatoria dell’immagine cinematografica, alterata nei suoi codici primordiali. Un cinema senza etica registica verso quello che si riprende, morboso e pornografico quando riprende gli spazi e scrive le nuove narrazioni del ventunesimo secolo. Una cinematografia capace di rintracciare una disciplina nel suo marciume che non può essere considerato necessariamente come un dato negativo, dove piuttosto che una ricerca assidua di un realismo della realtà, bisognerebbe parlare di un percorso che sta portando a una simulazione della realtà. L’alienazione dell’individuo nella società magmatica cronenberghiana del seminale Cosmopolis, il suo controcampo identificato da Leos Carax in Holy Motors, progetto che riesce a sofisticare una realtà sociale e audiovisiva in crisi d’identità.

La realtà virtuale di Holy Motors (2012)

Un gran numero di opere sono il frutto di un lavoro citazionistico di matrice teorica, derivativo dal passato cinefilo e storico, prima ancora di un ragionamento sul senso di quello che si vuole raccontare. Si ha sempre la paura del presente, una paura che viene esorcizzata solo guardando al passato, ripescando dal gigantesco archivio che ha prodotto la storia del cinema.

Gli ultimi anni hanno visto un cinema di tendenza curioso, i grandi autori del passato, o del cinema post 1990, danno la sensazione di non riuscire a smarcarsi dalla loro filmografia, non per una mancanza di vena artistica, ma per un obiettivo non ancora sufficientemente centrato. Martin Scorsese in The Irishman riprende il suo sguardo gangsteristico per farlo culminare in una museologia sulla morte che ripensa le radici del suo cinema. Quentin Tarantino nel suo Once upon a time in Hollywood, libera l’icona Sharon Tate dalla perversa macchinazione del mondo social ripescando nuovamente, e forse definitivamente dal passato. Con J’accuse Roman Polanski fa riemergere esplicitamente il suo passato autobiografico, rielaborando la grande storia del primo novecento su una dimensione attuale. Esempi che sono dei punti di approdo finali di un lungo percorso artistico che ritorna con forza.

Le grandi narrazioni stanno scomparendo, o si stanno spostando verso la narrazione seriale che permette il racconto di epopee diluite su tempistiche dilatate. Non è ravvisabile un John Ford nel cinema contemporaneo, le icone di oggi sono in bilico tra il sogno e la realtà, digitalizzate e solo all’apparenza reali. La ricostruzione in computer grafica di attori defunti è un’altra delle vie che potranno essere percorse, già ampiamente sperimentate da diversi blockbuster, potrebbero trasformarsi in un metodo alternativo specialmente nei prossimi periodi in cui continuerà a riversarsi la paranoia della distanza sociale, pur continuando a rimanere in sintonia con la mancanza di morale verso tutto il materiale messo in scesa. Il virus accentuerà le condizioni produttive del domani, con la velocità dello streaming a dare una mano a un cinema liquefatto, fluido, onirico, fantasmatico e lontano dalle imponenti archeologie narrative, dagli uomini tutti d’un pezzo.

I Soprano (2002/2007) è stata, forse, l’ultima grande epopea audiovisiva
Walter White, il personaggio centrale di Breaking Bad (2008/2013), è uno pochi antieroi degli ultimi anni entrati nell’immaginario collettivo. Icone riscontrabili quasi esclusivamente nella serialità

Il cinema dai budget faraonici che proprio in questi anni ha raggiunto nuovi vertici sia in termini produttivi che di puro incasso, potrà sopperire a favore di un ritorno all’indipendenza dell’artigianato, si sente parlare del fatto che la rivoluzione scaturita dal virus aprirà le porte a nuove stagioni cinematografiche, avanguardiste e non, questo momento storico può essere l’occasione giusta per concretizzarle.

In Italia, per esempio, l’appiattimento delle proposte filmiche annuali sentono la mancanza di una tradizione italiana propria, drammaticamente sostituita da una corsa verso le forme abituali del cinema hollywoodiano. Servono autori che mettono da parte la ricerca snervante dell’autorialità, per concentrarsi su progetti a bassa quota e con meno pretese narrative.

Considerando la sicura crisi economica e la conseguente diminuzione dei costi produttivi, non è da scartare il ritorno di un ecosistema a basso costo, ma sempre pronto a sfornare un cinema di qualità sia per il grande pubblico che per gli spettatori appassionati.

Una New Hollywood degli anni 2000.

Il primo re (2019) è il risultato presuntuoso e inconcludente di voler usare Hollywood come modello per il cinema blockbuster italiano

(Paolo Birreci)