Il Traditore, di Marco Bellocchio

È sorprendente l’ultima opera di Bellocchio, si muove sui passi del neutralismo sovversivo (Bella Addormentata), discute il rapporto politica/ corpo/cinema (vincere), si approccia psicoanaliticamente all’uomo (buongiorno, notte) e ripropone la riflessione sullo squilibrio del nucleo familiare (I pugni in tasca).
L’indagine che il regista compie sul nostro paese parte proprio da quest’ultimo punto, la famiglia, che come già accadeva a fine anni 90′ con il capolavoro di David Chase, I soprano, viene estrapolata dal proprio contesto per farsi portavoce di un discorso più amplio (L’Italia da una parte e l’America dall’altra).

Il Traditore (Marco Bellocchio, 2019)
I Soprano (David Chase, 1999)

Ritratti di famiglia a 20 anni di distanza

Il traditore ha una struttura quasi trasversale, non si muove mai in un’unica direzione e non acquista mai una sola interpretazione, dalla decostruzione di un concetto come il tradimento, che attraverso le parole della sorella di Tommaso guadagna un senso arcaico ed ancestrale, (“lui è Giuda Iscariota”!) si passa ad una dimensione più attuale, culturale, che trova compimento negli spazi geometrici e serrati di quel teatro degli orrori che diviene (simbolicamente) l’aula del processo, dove i condannati, dimenandosi e sbraitando come demoni in cerca di un pertugio dal quale svincolare, denunciano quello che è a tutti gli effetti un passaggio di schieramento, il Buscetta servitore di cosa nostra che diviene, de facto, servitore dello stato.

La forza centripeta dell'inquadratura, come esposto dai fratelli Lumière nel teorico "il crollo del muro" assume un significato metaforico. Essa consiste nell'andare dal particolare al generale (o viceversa), per aggiungere o togliere elementi filmici. In questo caso il lavoro su piani, campi e frame, ed il raccoglimento progressivo di personaggi all'interno del quadro, preannuncia gli eventi futuri, donando allo spettatore uno sguardo pressoché totale sul discorso riportato dal regista.

Una delle cose da notare nell’opera , è il particolare (virtuosistico ma cosciente) utilizzo del montaggio, che devia da un qualsiasi tipo di naturalismo per comprendere al suo interno elementi disomogenei ed extra-diegetici; queste scene estranee al tessuto narrativo principale seguono concettualmente la lezione del cinema sovietico, e portano all’opera una valenza metaforica in relazione al contesto principale : così troviamo la tigre costretta in gabbia (Pippo Calò), la iena furba e scaltra pronta a divorare i cadaveri (Riina) e i topi stanati che scappano dal loro rifugio(il resto degli affiliati a cosa nostra).

Lo sguardo, nel cinema di Bellocchio, ha da sempre avuto l’efficienza di predisporre e sucessivamente smascherare il macrocosmo, si tratta di una scelta ideologica che diviene conseguentemente modalità di visione.
Il traditore ne è un esempio perfetto, al pari di tutti i suoi lavori precedenti, abbiamo infatti ricostruzioni storiche tramite recupero di materiali di repertorio, abbiamo una componente onirica (le visioni del protagonista) ed una mediatica, con la televisione che diviene quasi un necrologio (la morte di Falcone, quella di Schifani).
Forse l’unica differenza sostanziale rispetto ai film precedenti può essere riscontrata nell’intersecarsi delle tre modalità di sguardo, che travalicano le tortuosità delle riflessioni linguistiche tipiche del suo cinema per scolpire il ritratto di un uomo d’onore.
Ciònonostante, il lato teorico del cinema bellocchiano non cessa di mostrarsi, e lo fa attraverso una riflessione ontologica che trasferisce la realtà all’interno della macchina cinema, permettendole di acquisire, all’interno di quello specifico contesto, un nuovo respiro; emblematica in questo caso la scena della morte di Falcone, una delle più riflessive del cinema italiano contemporaneo, che, de facto, ci viene mostrata per la prima volta in assoluto proprio all’interno di questo film, con la macchina da presa che rimane fissa per tutta la durata del fatale attentato, riprendendo dall’interno tutta la tragedia. È il senso dell’immagine filmica, svelare l’insvelabile, arrivare laddove altri meccanismi di comunicazione non arrivano, conoscere cose che prima ci erano nascoste, o che già conoscevamo.

La morte di Falcone e di sua moglie

I membri di cosa nostra vengono spesso ripresi in immagini televisive o attraverso delle plongee, nelle loro piccole celle, girando in loop su se stessi, come animali catturati e tenuti prigionieri fuori dal loro habitat naturale, in preda a crisi di nervi, a pianti e urla sfrenate, totalmente delocalizzati, privi di luogo.
La funzione del corpo viene ribaltata, e proprio come accadeva in Bella addormentata, esso non è più oggetto donato in sacrificio alla macchina da presa, la quale era il veicolo che ne permetteva la materializzazione sullo schermo, ma è il luogo all’interno del quale le immagini vengono proiettate, ed è attraverso questo conglobamento che il potere si manifesta e si deturpa, è il connubio paradossale tra un corpo che non può vivere senza immagini e immagini che non vivono senza corpi su cui proiettarsi.

Per Bellocchio il potere ha sempre avuto bisogno dello spettacolo per potersi palesare, ed è seguendo questa sua dichiarazione che il senso della messa in scena del traditore acquista una chiarezza decisiva, il film è un unico e grande palcoscenico teatrale dove la mitologia del potere prende vita, attraverso luci accecanti, continui flash fotografici e barocchismi estetici più o meno marcati, e in questo, è quanto di più distante possa esistere dal capolavoro sorrentiniano “Il divo” (che verteva più su un lavoro di parodizzazione e derisione tragicomica).

Bellocchio costruisce quindi una sorta di show circense dove passa al vaglio i problemi di un intero paese, dapprima attraverso una ri-edificazione accurata degli eventi, privando il discorso di un qualsiasi tipo di esagerazione o revisione, e discostandosi dalle esaltazioni in cui si può incappare quando si affronta questo genere di opera, e secondariamente impostando questo stesso discorso attraverso un’indagine più intensa e travisata, (come espresso all’inizio dell’analisi, vedasi le visioni del protagonista o l’utilizzo del montaggio).
Ne risulta quindi uno scorcio mutevole che è anche rappresentazione drammatica di un popolo, frammentato nella struttura, spesso ellittico, con momenti dilatati e altri ristretti, contornati da costanti immagini di repertorio che donano senso ulteriore alla narrazione, costituendone e de-stituendone il procedere.
Tra l’allucinato e il fattuale, l’emozionante ed il barbaro, il processuale e lo spirituale, Il traditore cammina su sentieri che si separano e si incrociano continuamente, evidenziando continui segni opposti e sfruttandone appieno le potenzialità di unione.
È il cinema di un regista che si conferma una delle voci più importanti dell’attuale panorama italiano.