John Wick 3: Parabellum, di Chad Stahelski (2019)

Insert coin.

Dalla domanda con cui inizia “Viaggio in Italia” di Roberto Rossellini, quel « dove siamo? » detto da Ingrid Bergman il cinema è totalmente cambiato, da sistemi classici e chiusi si è passati alla ricerca di narrazioni sempre più sfilacciate.
Storie liquide che sgocciolano fuori dallo schermo, da quella frase è cambiato il modo di vedere il cinema.
Dopo lo “smarrimento” ci si apriva alla sregolatezza della stagione della Nouvelle Vague dove le regole, la voglia di chiarezza e leggibilità dell’immagine viene meno.
Intervallata dai jump cut godardiani l’immagine audiovisiva inizia a mutare forma, il respiro viene spezzato e il cinema diventa vita (o meglio pezzi di vita) e riscrive le proprie regole.
Lo spettatore, ormai conoscitore della macchina cinema, seduto sulla poltroncina assiste a questi spettacoli roboanti sempre più spezzati dove non vi è più logica e dove un personaggio con capelli lunghi e sigaretta in bocca (Red Apple) trova la morte, ma dopo pochi minuti è pronto a ritornare sullo schermo. 
Proprio Vincent Vega è diventato uno dei meme più virali degli ultimi anni, si gira e cerca risposta alla domanda di Ingrid Bergman.
Dove siamo arrivati allora? Cos’è diventata la settima arte, ma in generale che piega sta prendendo l’audiovisivo?

Nell’ultimo periodo tra le cose che mi frullano nella mente ci sono: Red Dead Redemption e i videogame openworld che prendono vita propria; Miss Keta e l’annullamento dell’artista (riguardate lo Psycho di Gus Van Sant) a favore di un unico corpo in cui si fonda trasgressione, trash, droga, musica anni 90 e Trap (Gabri Ponte e Quentin 40 per fare alcuni nomi presenti in “Paprika”); Liberato e Francesco Lettieri con il loro “Capri Rendez-Vous” dove episodio dopo episodio si scontrano sempre più formati e stili accompagnati dai pastiche linguistici del cantante napoletano tra dialetto, inglese e francese e con ringraziamenti finali dedicati a Xavier Dolan, Cassavetes, Peppino di Capri e Chris Marker (tra i tanti) e allora continuo a chiedermi come Vincent Vega o Ingrid Bergman (scegliete voi) « dove siamo? »

Ci troviamo sempre di più (catalogo Netflix) in un periodo dove i prodotti prendono vita da soli ricchi di un patrimonio di storie e di una mitologia propria, basti pensare all’uso che si fa dell’iconografia nel cinema contemporaneo (Blade Runner 2049, The Last Jedi), che permette al prodotto stesso di avere già una struttura solida in un mondo come quello del postmoderno dove si gioca a suon di significati e segni preesistenti.
Ed è proprio da qui che riparte il nuovo linguaggio, riproposizione di generi (il teen movie va parecchio forte su Netflix) e videogame (Bandersnatch) e tutto ciò si trova nel terzo capitolo di John Wick dove il genere action arriva a vette fin’ora inesplorate e la struttura videoludica da Game of Death a The Raid è tra le più solide mai viste.

Si abbassano le luci nella hall del hotel, si accendono i neon e inizia il gioco, inizia la caccia all’uomo.
L’estetica al neon è una scelta ricorrente che vediamo spesso e volentieri in ogni campo dell’audiovisivo, che sia videoclip, videogame, serialità televisiva o settima arte, luci colorate che diventano schegge che riflettono in occidente le luci dei palazzoni orientali, ma in generale dell’estetica action di Seijun Suzuki e compagni.
Il neon diventa anello visivo di congiunzione tra i vari media.
Ed è tramite il gioco di neon e specchi che nel nuovo capitolo di John Wick rivediamo quel cinema muscolare d’azione orientale caduto per anni nel dimenticatoio e riportato in auge da artisti come Tarantino che giocando al rimbalzo ha portato in scena il pastiche cinematografico per eccellenza.
Questa luce colorata abbaglia lo spettatore, lo tiene incollato alla poltroncina costretto a vedere questo spettacolo roboante di corpi che sfondano i vetri e le pareti del classico e percorrendo la via di un nuovo linguaggio ibrido fatto di segni da videoclip e videogame rinnovano il genere e creano il film d’azione definitivo.

 Harold Lloyd e John Wick, gli evidenti riferimenti allo slapstick 

L’ennesima apparizione di Buster Keaton sui maxi pannelli pubblicitari (già apparso nel capitolo 2) ci fa già comprendere che direzione decide di prendere il film di Stahelski. Keanu Reeves diventa un corpo keatoniano vecchio e zoppicante che tenta di dominare fin dall’inizio la macchina da presa, discorso su cui ha sempre ragionato il cinema di Keaton che invece di scansarsi, quando arriva il “treno” dei Lumière lo domina e lo butta giù da un ponte.
Wick come Keaton diventa domatore, è lui che scrive le regole del suo mondo, ha ormai raggiunto un grado di fama per cui può tutto (e spesso altri personaggi glielo ricordano) e per cui è lui il vero boss finale del suo stesso gioco.
John è un personaggio con cui tutti vogliono confrontarsi.
Gli attori di un altro film dalla struttura molto videoludica come Yayan Ruhian presente come antagonista già in The Raid o il cestista serbo Boban Marjanovic che riporta subito alla mente lo scontro finale di Game of Death (anche li struttura videoludica) tra Kareem Abdul Jabbar e Bruce Lee, non aspettano altro che prendere a cazzotti un Neo decisamente invecchiato.

Buster Keaton in John Wick

Nella cosmologia di John Wick non facciamo altro che ammirare personaggi che percorrono i loro percorsi fatti di upgrade, munizioni, monete e boss da sconfiggere come nel migliore dei Final Fight.
E tutto ciò è una via che viene presa costantemente in molto cinema contemporaneo.

D’altronde se nel cinema delle origini la base culturale era formata da: letteratura, teatro e opera e nel cinema moderno (le varie “nuove onde”) e postmoderno la base arriva dal cinema stesso, nell’era del digitale la base culturale di ogni ragazzino si è formata tramite “il videogame” ed è per questo che si cerca sempre più interattività, è per questo che anche un genio come Polanski ha fatto “D’après une histoire vraie”, magari film meno riuscito rispetto a ciò a cui ci ha abituato il maestro polacco, ma che porta avanti un ragionamento teorico interessantissimo: come è cambiato il rapporto tra opera-spettatore-autore? (guardate il film)

Lo spettatore diventa attivo ricompone i pezzi a suo piacimento (Bandersnatch), fa killcount (esistono migliaia di montaggi video su youtube dove si gioca con il prodotto) e si diverte a vedere il grosso spettacolo da circo dove Keanu sfonda vetrine, cade dai palazzi e non muore mai proprio come se avesse più vite come in un videogioco.
È l’elogio dell’irrazionalità che torna sui passi intrapresi da David Leicht (qui executive producer) che già in “Atomica Bionda” aveva utilizzato un folle accostamento ad Andrej Tarkovskij per delineare meglio la totale assenza di spazio e tempo nella Berlino della guerra fredda dove accompagnata da “Stalker” Charlize Teron prende a calci in faccia i cattivi. In John Wick 3 Tarkovskij torna in una scritta al cinema e se già con il film di Leicht ci è stato detto che ci stiamo muovendo in assenza di spazio e tempo qui con la scritta “Nostalghia” ci viene detto: «non fatevi domande, qui 1+1 non fa mai 2» ciò a cui assistiamo è solo un picchiaduro in 3D dove i corpi cadono a terra a suon di pugni e proiettili e nessun passante se ne accorge.

Quindi dove sta andando l’audiovisivo? Si chiedono Vincent Vega e Ingrid Bergman… John Wick è la risposta.

(Carmelo Leonardi)