La cura dal benessere, di Gore Verbinski (2016)

Con “A Cure for Wellness” Verbinski firma uno dei punti massimi della sua altalenante carriera, se non il più alto. Il regista statunitense infatti, probabilmente grazie all’esperienza accumulata e alla graduale presa di consapevolezza del mezzo filmico, dà vita un’opera pregna di spunti di riflessione, ingiustamente sottovalutata, che riesce a fare un salto rispetto al The Ring del 2002, seppur imbattile dal punto di vista iconico.

Il feroce incipit del film attesta immediatamente l’intento distruttore di Verbinski, permeando così la pellicola di un’aura macabra sin dal suo principio; intento questo che in una retrolettura apparirà pedagogico e necessario. Quando Lockhart, broker intraprendente quanto falso e meschino, viene incaricato di prelevare il sig. Pembroke, situato in un centro benessere in Svizzera, inizia a delinearsi la narrazione e si palesa subito una contrapposizione chiave(non dicotomica), ovvero un torreggiante grattacielo, sede dell’azienda di Lockhart, e un castello ottocentesco, dove è installato il centro di cure, due non-lieux che si pongono agli antipodi, due simboli, uno della società moderna, frenetica e divoratrice, e l’altro di un ideale idilliaco, tuttavia solo apparente: le distanze finiranno inesorabilmente per assottigliarsi.

L’imponente castello assume vagamente il ricordo della tenebrosa mansion di Xanadù di wellesiana memoria e se, seppur in modo più esplicito (NO TREPASSING), questa sembrava avvertirci che varcare quella soglia avrebbe costituito un rischio, qui, davanti ai prominenti cancelli neri, il monito sembra essere il medesimo.

La cura dal benessere(Gore Verbinski, 2017) Quarto potere(Orson Welles, 1941)

L’aura di mistero, enunciata perfettamente anche dall’ottima messa in scena di Verbinski- fredda e cupa-, si concretizzerà nel progressivo disfacimento dell’idillio, provocato dallo sviluppo della detection, che porterà alla luce strani avvenimenti. Il sogno diventa incubo e, così come la “miracolosa” acqua del centro, silenziosa, indebolisce e deteriora gradualmente i corpi dei pazienti, così Lockhart cade lentamente in una rete di allucinazioni e fantasmi passati che cercano di trascinarlo in una delirante follia. Ecco dunque un’altra contrapposizione chiave a livello discorsivo: da un lato i pazienti, che si prestano docilmente al ruolo di pedine, carne da macello di un gioco più grande. Viene dato loro un ideale, il benessere(non a caso la molteplicità di accezioni del termine), mentre in realtà lo strumento col quale dovrebbero perseguirlo li consuma da dentro; dall’altro lato abbiamo Lockhart, individuo dall’impronta salvifica, logorato da un perpetuo viaggio alla ricerca di risposte che non arrivano mai, un viaggio negli inferi, i labirintici sotteranei del castello (un’ulteriore contrapposizione: superficie=idillio; abisso=incubo), che profilano la condizione alienata del personaggio. Le “stanze degli orrori” che attraversa Lockhart si insinuano dentro la sua percezione di mondo, combatte coi suoi demoni interiori che assumono le sembianze di mostruose creature acquatiche. Volendo fare un altro paragone con Welles, tutto ciò è analogo, anche a livello visivo, alla sequenza dell’acquario in La signora di Shanghai(1947), dove i pesci si figurano come esseri inquietanti e deformi, ipostasi dei movimenti interiori dei personaggi; se però qui si inquadravano letteralmente nello sfondo, dietro un vetro, intoccabili, nel film di Verbinski le spire di questi demoni finiscono per avvinghiare Lockhart.
Verbinski costruisce così, attraverso una dilatazione dei tempi e una reiterazione narrativa, un incubo, un’ossessione dalla matrice polanskiana, opprimente ed estraniante.

La cura dal benessere(G.Verbinski, 2017); La singnora di Shanghai(Orson Welles, 1947)

L’acqua ha un ruolo cardine nel film, per i risvolti narrativi che innesca ma, soprattutto, per il potere semantico di cui si riveste, in grado di innescare una serie di doverose riflessioni. Infatti, rivelando le sue proprietà riflettenti e deformanti, essa lavora congiuntamente a specchi e lenti e svincola così la proliferazione di immagini virtuali, strutturando di conseguenza la mise en scene sul concetto di duplicità e contrapposizione. Perciò, come nel riflesso si origina un gioco perpetuo di scambi, dove il reale e il virtuale si rinviano a vicenda causando un’indiscernibilità e quindi una sfumatura dei confini, così anche gli abissi si disperdono l’uno nell’altro, la realtà nella finzione, il bene nel male, aspetto questo che si manifesta in tutta la sua ambiguità nel finale, dall’influenza spiccatamente carpenteriana.

Se questa riflessione ha sicuramente implicazioni metafisiche e quindi magari meno “palpabili”, si riesce tuttavia a cogliere anche qualcosa di più concreto e superficiale, ma non per questo meno importante: con lo sbiadirsi dei confini si dissolvono anche le distanze tra quei due non-lieux che abbiamo descritto sopra che, anzi, come due sagome sovrapposte, combaciano. La volontà di potenza degli uomini, espressa già dall’imponenza degli edifici(da qui il parallelismo con Quarto potere risulta ancora più chiaro), si affianca definitivamente, esprimendo dunque una riflessione sulla modernità, regolata da intenti ambrati di un’idealità illusoria e perseguiti con sopraffazione e voracità.