La delusione ‘IT – Capitolo due’ e l’evoluzione della sala

La delusione ‘It 2’ e l’evoluzione della sala

Per anni al cinema le nostri più grandi paure hanno avuto volti di mostri iconici come: Freddy Krueger, Michael Myers, Jason Voorhees.
Icone entrate nell’immaginario collettivo e che con il loro spettacolo “basso” riuscivano a portare in sala milioni e milioni di persone.

Se da una parte l’horror voleva essere autoriale, questi mostri sono stati negli anni quelli che, parlando un linguaggio ben più universale, dietro la loro maschera hanno mostrato un male riconoscibile a tutti.

Spettacolo da sala ed evento da spremere fino all’ultimo centesimo che anno dopo anno lasciava sotto traccia i germi di una analisi politica e sociale senza eguali.
Chi mi conosce sa bene che spesso mi piace dire come il “Non aprite quella porta” di Tobe Hooper sia uno dei film più belli e crudi sulla guerra del Vietnam.
È sempre stato così, sotto squartamenti, lame affilate, cubi e cenobiti c’è sempre stato uno specchio che voleva mostrare noi stessi.

  • Hellraiser, Clive Barker
  • A Nightmare on Elm Street 3: Dream Warriors, Chuck Russell
  • The Texas Chainsaw Massacre, Tobe Hooper
  • Friday the 13th Part 2, Steve Miner

Ma esattamente a che punto è arrivato l’horror da sala? Che fine hanno fatto quelle maschere famosissime in tutto il mondo e quanto male riescono ancora ad infliggerci?

Tra gli anni 70 e gli anni 80 ci sono stati film che hanno cercato tramite la macchina cinema di svegliare le nostre coscienze.
Il sogno diventava metafora della sala cinematografica, luogo lontano dalla realtà dove per due ore nulla più ci riusciva a toccare.
Ed era qui che risiedeva la forza di ‘Nightmare‘ di Wes Craven, violare il sonno, casa della mente, che ci teneva al sicuro e tramite le lame affilate del guanto di Freddy recidere le gole alla prole di una nazione addormentata e non curante del destino dei propri ragazzi, mandati sotto le grinfie del mostro che loro stesso avevano creato.

Le colpe dei padri ricadono sui figli, si legge nell’antico testamento, e da qui parte tutto l’horror ottantottino che rimette in campo genitori assenti sessuofobi e bigotti, e tensioni sessuali insieme ad una spiccata fascinazione verso la violenza da parte delle nuove generazioni.

V I E T ’67
The Big Shave – Martin Scorsese

Servono i mostri per risvegliare le coscienze, serve guardare dentro l’abisso per ritrovare se stessi.
È un tema che è sempre stato presente in tutte le mitologie, da Horus che discende negli abissi per salvare il padre al Pinocchio di Collodi che si fa inghiottire dalla balena per Geppetto.
Dobbiamo farci attraversare dal buio prima di poter ritrovare la luce del sole.
Qui entra in gioco quindi la figura del mostro che diviene moderno Prometeo (come il Frankenstein di Mary Shelley) che deve portare la luce della verità agli esseri umani.

  • Walt Disney’s Pinocchio
  • Frankenstein, James Whale
  • Prometheus Bound, Peter Paul Rubens,

Serve quindi Myers per ristabilire l’ordine e far scoprire ad una generazione appassionata d’horror truccata come vampiri e zombie che cos’è il vero male.
Kruger, nella società del “Big Brother” di Orwell, per cercare di braccarli anche in quei luoghi che sembrano più sicuri, i sogni.
Serve Pinhead per riabituarci alla sofferenza e gancio dopo gancio farci risentire vivi rinunciando alla vita per rinascere nuova carne (proprio quella di Cronenberg).

La nostra immagine marcisce, come il quadro di Dorian Gray, e ciò che rimane fuori è la carne, pura essenza malefica spogliata e visibile a tutti.

In un periodo dove autori hanno proposto una rinuncia della memoria per rifondare l’umanità (‘Suspiria’ – ‘Us’) sui nostri schermi è tornato quell’horror basso, da cinema commerciale che col passare degli anni verrà spremuto sempre di più, che invece rimette in campo smemorati che “devono tornare a ricordare” perché la memoria è importante e c’è un pagliaccio «di merda» da sconfiggere.

Arriviamo quindi a It – capitolo 2 e i nuovi kolossal.

Erano anni che al cinema horror mancava un volto iconico come quello dei mostri elencati prima.
Fine anni 80 e inizi anni 90 Pennywise però fa la sua comparsa.
Prima sugli scaffali delle librerie e poi sugli schermi delle nostre tv “tradotto” televisivamente da Tommy Lee Wallace.

Arriviamo quindi ai giorni nostri e la riscoperta dell’ultima vera icona horror sembra oro che luccica in mezzo ai tentativi scomposti e con poca attrattiva dell’horror da sala degli ultimi anni.

Se da una parte il genere quindi attua un processo di totale gentrificazione, basti pensare ad Eggers, David Robert Mitchell e tanti altri autori che hanno trasformato la “pasta” dei prodotti di genere sia a livello formale che contenutistico, dall’altra ci sono autori che hanno continuato a proporre opere che come obbiettivo principale hanno quello di portare il pubblico in sala.
Tramite una forma semplice, accattivante, largo uso dello jumpscare, questi autori preferiscono andare più verso i gusti del pubblico, cercando di creare forti iconografie, e piuttosto lasciare sotto traccia eventuali discorsi poetici, comunque sempre presenti come ci hanno insegnato autori commerciali come Carpenter, Craven, Hooper, ma soprattutto quella “politique des auters” teorizzata dai critici francesi negli anni cinquanta che fece rivalutare artisti come Hitchcock snobbati da molta critica coeva.

It Follows riesce a prendere a piene
mani da quell’horror di cui abbiamo parlato prima, innalzare il
discorso politico e sociale approfondendolo e riuscendo a renderlo
nuovamente moderno.

It quindi proviene dal secondo tipo di operazione, è un prodotto che si fa forte di avere alle spalle un personaggio e un universo già conosciuto da molti.
I film di Muschietti non sono assolutamente dei remake, decidono di non appartenere a King e nemmeno a Tommy Lee Wallace.
Una operazione che almeno dal primo film (con tutti i problemi del caso) sembrava vincente.
Il Pennywise di Muschietti è un personaggio finalmente affascinante che sembra provenire dallo stesso mondo di quei mostri storici di cui sentivamo la mancanza.
Sembra un mostro che con estremo ritardo riesce a venir fuori dalla sala (o dalla pagina) in cui era rimasto chiuso a sognare magari proprio quel Freddy Krueger protagonista di quel ‘Nightmare‘ di Wes Craven che si legge sull’insegna in una delle sequenze finali del secondo capitolo.

Pennywise è, infatti, un’entità astratta che come Freddy Krueger caccia in zone lontane dalla realtà.
Entrambi paure ataviche insite dentro l’animo umano che lo tentano e lo puniscono, entrambi frutto di una cacciata (uno caduto come Lucifero nel posto dove cui poi è sorta Derry, l’altro braccato e bruciato vivo) che attuano la loro vendetta attirando le prede in trappola, con uno spiccato senso dell’umorismo, camion dei gelati e palloncini rossi come il migliore dei John Wayne Gacy in circolazione.

Pennywise è il male insinuatosi dentro le nostre case, cresciuto insieme a noi, pronto a manovrarci come marionette (come fa con Bowers) e a metterci in trappola quando meno ce l’aspettiamo (che sia sotto un ponte, come nella fiaba dei “Tre capretti furbetti”, o nelle fognature di Derry).

“Esso” è quindi la totale rappresentazione di quel male che cova dentro di noi, di tutte quelle paure da cui l’essere umano fugge, ma da cui prima o poi viene divorato.
Un’entità astratta che possiamo sconfiggere soltanto psicanalizzandoci, soltanto crescendo (proprio come per Freddy).

  • It – Chapter One, Andy Muschietti
  • A Nightmare on Elm Street Part 2: Freddy’s Revenge, Jack Sholder

Ed era qui che quindi il primo capitolo diventava interessante, riuscendo a scavare dentro temi importanti, diventando racconto di formazione attuando la stessa formula vincente, dello ‘Stranger Things’ dei Duffer Bros (ad oggi il prodotto più visto su Netflix) e con un personaggio carismatico come il Pennywise interpretato da Bill Skarsgard.

Ed e qui, invece, che il capitolo 2 sbaglia, ma rimane fondamentale a livello puramente teorico per comprendere dove sia arrivato il cinema commerciale.
Da anni non si fa altro che parlare di come il cinema sia in crisi, cosa in parte vera, ma non per colpa dello streaming (come quelli più conservatori e non aggiornati alle evoluzioni del linguaggio pensano).
Secondo questo punto di vista, il cinema sarebbe dovuto morire già con la comparsa delle prime televisioni, invece ha assorbito, cambiato il suo linguaggio e sempre più dialogato con il piccolo schermo creando un interscambio notevole che ha fatto perdere totalmente l’orientamento.

Come hanno perso totalmente l’orientamento i nuovi prodotti.
In sala si porta il grande evento, unica forma per far alzare dal divano di casa lo spettatore e portarlo al cinema, per poi allargare sempre più i confini di queste nuove opere liquide.


Negli ultimi anni abbiamo visto come la fruizione dei prodotti sia totalmente cambiata.
Si va in sala per il film doppiato, per la versione in lingua originale, per la maratona con i vecchi capitoli della saga, per cantare i brani dei Queen insieme a Mercury, per la versione estesa e una volta tornati a casa continuiamo a fruire di prodotti televisivi appartenenti allo stesso universo che allargano gli spazi e i tempi della storia (Disney+), guardiamo i piccoli corti di Youtube che riempiono di eventi i vuoti tra il 2019 e il 2049 dell’universo di ‘Blade Runner‘.

Come ‘Blob’ il prodotto non è mai finito, ma muta forma, ci assale e ci ingloba.

La pubblicità virale di Tarantino per Once Upon A Time In Hollywood

Questo dislocamento di spazi, questa perdita di “autorità” della sala nei confronti degli altri metodi di fruizione ha portato non solo ad un ripensamento del modo di fare kolossal, ma anche ad un impoverimento del prodotto finale che sembra sempre essere una preview di qualcos’altro.

E ciò mi viene confermato dalle prime voci circolate su possibili spin-off di It, e dal mega applauso fatto da ragazzini più attenti alle storie instagram che al film stesso.
Tutto unicamente per sentirsi parte di quello che in sala non è più la fruizione di un prodotto audiovisivo, ma di un qualcosa che diventa “evento”.

It 2 si merita applausi perché ha dei clown che servono ai bar, una sala piena di palloncini, perché rinuncia a tutto ciò che c’era di buono nel primo capitolo e ingombra sempre più le sue sequenze con eventi ripetitivi, jumpscare prevedibilissimi e un forte feticismo per la CGI.
It 2 mi permette sia di aggiornare instagram che di seguire il film senza perdere nulla «tanto non c’è niente di interessante e nella sequenza dopo lo rifanno».

Pennywise mi si è mostrato sotto forma di ragazzini irrequieti pronti ad urlare e puntare le luci dei propri display in faccia alla gente, ma l’ho riempito di insulti, ho compreso che qualcosa nei meccanismi è cambiato e ho deciso di abbandonare la terribile “Derry” per sempre.

In sostanza la Derry mostrata da Muschietti è una cittadina fantasma che viene rimessa in campo unicamente quando il film fatica.
Continuo uso dello slow motion per flashback irritanti che fanno comprendere come nella titanica durata del titolo, in realtà, ci fosse ben poco da dire e da mostrare.
Muschietti, come tanto cinema odierno, decide di inserire anche qui il tema del luna park che mi sembra sia il simbolo migliore per parlare della sua opera.
Infatti il film attrae a sprazzi, in base alla giostra, ci intrattiene, ma alla fine della fiera smonta tutto e va a casa aspettando di ritornare al più presto con la speranza che i bambini, il prossimo anno, non siano troppo cresciuti.

(Carmelo Leonardi)