La signora ammazzatutti, di John Waters

“The pope of trash”

La provocatoria mente del regista nato a Baltimora (da cui proviene la generica e limitativa frase sopra); dirige un prodotto dissacrante e intelligente, grottesco e politicamente scorretto, malsano e fortemente cinico, tanto da apparire come l’apparente controcampo attenuato del remake di “Funny Games”. Se Haneke chiude lo spazio emotivo dei suoi personaggi, attuando un’operazione razionale e scientifica della narrazione e non permettendo allo spettatore di “dialogare” con il film, quindi allontanandosi nettamente dalla pellicola del 1994. L’intervento di Waters è si quello di scardinare le idiosincrasie di un’ambiente ordinario (analogamente al regista austriaco), ma alla fine dei conti si riduce essenzialmente ad anticipare il concetto di messa in onda e registrazione video che, similmente al lavoro di Haneke, porta indietro uno degli omicidi usufruendo di un televisore. Solo nel remake shot for shot del 2007 il personaggio di Michael Pitt crea una mortale tensione che diventa sberleffo riferito alle vittime. Un po’ lo stesso procedimento della madre killer, interpretata da una frizzante Kathleen Turner.

Riprendendo come modello di riferimento il film con Tim Roth e Naomi Watts. L’incipit delle due opere vede due famiglie al completo, in cui un dettaglio apparentemente infimo (nel film di Waters una formica che gironzola tra il cibo durante la colazione, nel film di Haneke, invece, una semplice ma ancora più indicativa musica extradiegetica), è eloquente nell’istruire lo spettatore dell’inquietudine nascosta, ma presente. Partendo da un contesto naturale, i corpi e gli ambienti del cinema di Waters sembrano essere costituiti da materiali di plastica, pieni di artifici talmente estremizzati da arrivare a sentirne gli odori, esperimento attuato durante la distribuzione in sala di “Polyester”, dove era possibile annusare odori diversi attraverso la scheda “odorama”. Operazione olfattiva tranquillamente riscontrabile anche nel film che stiamo trattando, e relegata in particolar modo alla famiglia della serial killer. Infatti, il concetto di famiglia benestante e addolcita è uno dei fondamentali del perbenismo intrinseco alla cultura statunitense, perché si partirà spesso da questo punto nevralgico. Sebbene la cultura europea del cineasta palma d’oro con “Amour” possa sembrare infinitamente lontana rispetto alle profonde radici americane, è altrettanto vero che il remake, a differenza dell’originale del 1997, smaltisca in parte queste convinzioni, avvicinandolo al film di Waters.

La signora ammazzatutti, di John Waters (1994)

Le due famiglie al completo durante la prima sequenza dei rispettivi film. Sia Waters che Haneke mettono in guardia lo spettatore del male nascosto, per mezzo di importanti segnali; profilmici in Waters (una formica) e musicali in Haneke.
Funny Games, di Michael Haneke (2007)

Malgrado la città scelta (Baltimora) sia il secondo centro statunitense con il maggior numero di omicidi (come raccontava la colossale epopea di David Simon (The Wire), HBO), seconda solo a Detroit; risulta attraente e in linea con il pensiero del suo autore questo alternativo punto di vista, edulcorato sin dalla fotografia. Una palette di colori accesa e spensierata, vicina a dei contrasti luminosi di matrice particolarmente classicheggiante e una moglie esteticamente perfetta, uscita apertamente da qualche musical anni 50.

La signora ammazzatutti è un horror fuori dagli schemi nel caratterizzare una madre killer dai contorni totalmente fiabeschi e benevoli, in linea con una componente estetica altrettanto fresca e vivace. La fotografia è altamente pastellosa e colorata, piena di richiami a uno dei musical simbolo di un’epoca.
Cantando sotto la pioggia, di Gene Kelly e Stanley Donen (1952)

Un film fuori tempo rispetto al suo periodo storico, quindi? Nella realtà delle cose, questa apparente commedia classica presenta un gusto verso la cattiveria notevole, non solo nel trattare una vasta gamma di omicidi, chirurgica nelle modalità con cui vengono effettuati, ma soprattutto nel riflettere il cinema statunitense precedente. John Waters catalizza la sua attenzione verso il cinema horror e di serie B (sicura l’influenza di Russ Meyer), con la videoteca ad assumere un esempio ante litteram di un certo tipo di horror successivo, in cui i giovani sono cinefili ossessivi, non riuscendo più a dividere realtà e finzione. Il personaggio che prende le sembianze di questo discorso è il figlio della madre killer, il Matthew Lillard del primo “Scream” e accreditato anche nel secondo e terzo capitolo. Il ragazzo sembra essere particolarmente contento di avere una madre killer, arrivando a decidere di realizzare una pellicola sugli efferati omicidi di sua madre stessa, con annesso merchandising. Ci colleghiamo, quindi, a un discorso tipico del cinema statunitense anni 80 e 90, sul conoscere il cinema che è stato.

Matthew Lillard nel primo capitolo di Scream (1996)

Waters confeziona una fiaba nera, allegra e spensierata nella forma, peccaminosa e immorale nella scrittura. Un’opera che trascende la classica struttura da horror movie, per mettere in cattiva luce le stesse istituzioni di una società, come dimostra lo splendido finale.

(Paolo Birreci)