La sua giornata di gloria, di Edoardo Bruno (1969)

Mai come ora sembra essere il momento adatto di parlare dell’unica opera da regista di Edoardo Bruno, da poco scomparso.

Perché in un’Italia fatta da neofiti senza esperienza alcuna, che si danno battaglia sotto i vessilli di partiti tendenzialmente diversi, ma accomunati da quel modo di pensare basso e populista che (a questo punto forse erroneamente) si affibbia solo alla frangia di destra, ci si è risvegliati tutti con un “Sì” da festeggiare e una casta d’imbranati orgogliosi di aver sbranato le minoranze.
Ma se da una parte il paese si mette sempre più tra le mani di una destra scialba che guida il suo elettorato con slogan che ricordano i rumori di un petomane, c’è pur sempre una piccola fiamma rossa che cerca di resistere ai fiati nauseabondi che vogliono spegnerla per lasciare l’Italia “al nero”.

“Non ho trovato il comunismo in casa“ (Rossanda) citando una delle grandi anime della sinistra italiana da poco scomparsa; la sinistra in casa effettivamente non c’è l’abbiamo più.
La sinistra è morta e sepolta sotto ad argomenti come immigrazione, disoccupazione, salario minimo e calo delle retribuzioni che ormai sono argomenti tabù.

In strada non c’è più una sinistra, sta arroccata sui palazzi.
Nascosta mentre spia tutto dal suo cannocchiale, ma ha paura di agire e non trova comunicazione con gli altri gruppi sopra i tetti.

Diciamo che questo è proprio il punto di partenza della riflessione portata avanti da Bruno, con l’unica differenza che tutto ciò che descriveva avveniva nel 1968 e dopo 52 anni ci ritroviamo in una situazione politica ben più degradante dove si sostituiscono manganello e lotte in piazza con meme e trashume televisivo.

Ed è la forza dell’immagine che è più violenta di un colpo di manganello.

La rivoluzione parla attraverso l’attore, l’attore è il tramite tra i rivoluzionari e i borghesi.

Pierre Clémenti

Inizia così il film di Bruno, con un monologo di Pierre Clémenti estrapolato da una sequenza non montata del film Partner di Bernardo Bertolucci.
Fin da subito si esplicita la forza della rappresentazione, la violenza della messa in scena che viaggia su un taglio verticale dello schermo tra reale e fantasia.

L’attore diventa sabotatore, un giullare di corte fuori dal mondo che con il suo spettacolo lotta contro quella società che lo richiede.

Il cinema diventa lotta rivoluzionaria.

Ed è in un momento come questo, dove la società tracciata da Debord è più forte, dove le emittenti televisive e l’informazione online vengono facilmente politicizzate che c’è bisogno di riscoprire quel tipo di cinema dei movimenti sessantottini fatti con mezzi di fortuna che parlano di anarchia e ribellione.
Solo un tipo di cinema ormai scomparso può farci rimettere in discussione il reale per porre le nuove basi da cui ripartire.

Dove sono finiti i Petri e i Ferreri? Perché Maresco viene censurato?

Quel che semini raccogli: se hai cittadini egoisti e ignoranti, avrai leader egoisti e ignoranti. Quindi forse non sono solo i politici a fare schifo forse c’è qualcos’altro che fa schifo da queste parti. Come… il popolo!

George Carlin

Concludeva George Carlin in un suo monologo.

C’è bisogno di educare le masse per mettere ordine nel disordine.
E questa è la strada che cerca di battere Bruno, lui che di masse con la critica ne ha educate parecchio e che preferiva sul suo Filmcritica parlare di film che potessero avere qualcosa da dire rispetto al puro intrattenimento dettato da certo cinema commerciale.
Se un film non gli andava a genio preferiva non parlarne, tracciando così una linea editoriale che guardava solo a donare un’esperienza edificante al suo pubblico.
Per questo oggi parlare e guardare l’opera di Bruno è il modo ideale per intendere un’Italia, rimettendo in campo Rossanda, dove si sentono “accenti che dopo la guerra non era permesso sentire” e allo stesso tempo comprendere l’idea del mondo che aveva una mente brillante come quella di Bruno che in una sequenza esplicita la sua idea teorica:

Non mi interessa la rappresentazione della nostra realtà caotica, ma qualcosa che in qualsiasi modo mi aiuti a metter ordine.

Tutto va messo in discussione, quella sinistra che adesso non si interroga e si divide, viene interrogata e cerca un punto comune.

In una Roma, che Roma non è (e non importa capire nemmeno che città sia) dei ragazzi vengono braccati dalla polizia intenta a reprimere con la violenza la guerriglia urbana, a mò delle repressioni di Bradbury e Truffaut.
Un rivoltoso, Claude, muore a causa di un tradimento interno.
La responsabilità della sua morte è di Richard che per riscattarsi cercherà di compiere con i suoi compagni un’azione terroristica, ma anche a causa del suo abbandono finale, e con un ulteriore tradimento sentimentale, l’azione fallirà miseramente.

Con dissociazione brechtiana, quasi da indagine saggistica, Bruno diventa la mente di quel Romano Scavolini, qui direttore della fotografia, che con la sua carneficina di A mosca cieca era la mano della rivoluzione, era l’atto e lo sparo della pistola.

Un film cervello, nero e serioso, avvicinato a Godard dai critici, ma che di Godard non possiede il sarcasmo e la tecnica.
Un film che va dritto al punto e che ad oggi è bene riscoprire cercando prima o poi di tornare insieme a scacciare l’oscurità che ci circonda.

Noi che abbiam voluto sulla terra edificare la gentilezza non potemmo essere gentili.

Bertolt Brecht

(Carmelo Leonardi)