L’uomo che uccise Don Chisciotte, di Terry Gilliam(2018)

Terry Gilliam, regista folle, visionario, proteiforme, autore che ha sempre dimostrato una passione sconfinata per il cinema e l’arte tutta, realizza un’opera d’immenso spessore, un lascito che sa emozionare, la summa di una vita.

L’ipotesto, l’impulso che dà vita a questa pellicola, risiede nel Don Chisciotte della Mancia, un capolavoro letterario intriso di genialità che, con la sua modernità, ha influenzato i secoli a venire. Così Gilliam, dimostrandosi grande conoscitore dell’arte, riprende i valori di questo testo, li muta, li ammoderna, li plasma al servizio della sua poetica.

Prima di addentrarsi nell’essenza più preziosa dell’opera è necessario e doveroso spostare l’attenzione su un aspetto che definirei più concreto, ovvero la pungente critica sulla società odierna. Se Cervantes si mosse in avversione al materialismo imperante e alla decadenza degli ideali nella nobiltà, Gilliam traspone questi problemi, concettualmente analoghi, nel suo contesto di appartenenza: il cinema; sempre più sottomesso al giogo delle produzioni, schiavo del denaro, la sua valenza artistica va assottigliandosi e piegandosi, ricoprendo un ruolo sempre più marginale. Gilliam nel perpetrare questa critica decide di adottare dei toni leggeri, ironizzando su quel system che lo attornia e sui suoi congegni attraverso personaggi ridicoli e caricaturali. Tuttavia, nonostante le venga conferita una parvenza di divertissement, la critica è molto profonda e sentita, quasi catartica, al punto che, visti tutti i travagli e i problemi di produzione che hanno avvolto la sua carriera (e in particolare questo film), assume una valenza autobiografica.

L’aspetto più interessante della pellicola, quello quintessenziale, è sicuramente il suo valore metacinematografico, un’importante riflessione sul confine tra realtà e fantasia, tra vita e arte. Gilliam, attraverso una riacquisizione degli stratagemmi narrativi utilizzati da Cervantes e, ovviamente, un loro adattamento dallo stile letterario a quello filmico (quindi enorme e complessa operazione linguistica), mette in atto un processo di messa in rilievo del mondo finzionale davanti al quale ci si trova. Ciò viene effettuato attraverso il palesamento di alcuni meccanismi (soluzioni di natura narrativa intrinsecamente legati alla costruzione dell’intreccio), che evidenziano la natura fittizia della struttura. L’esempio più raffinato del lavoro di Gilliam è l’artificiosità nella concatenazione degli eventi, che viene acuita e palesata attraverso incastri provvidenzialmente necessari, contingenze che occorrono alla continuità della fabula e che, quindi, evidenziano l’arbitrarietà del racconto. Questo elegante movimento all’interno dei congegni narratologici presenta anche delle rotture che svelano con impeto l’intento dell’autore; in questo senso è eloquente la sequenza dove i sottotitoli vengono letteralmente spazzati via dal protagonista: un elemento paratestuale che scivola nella diegesi e viene annullato (è forse Gilliam che rifiuta ogni parafrasi rigorosa?).

Viene ulteriormente evidenziato l’intento rielaborativo: il testo di Cervantes viene fisicamente visulizzato, scende “in campo”, in balia dei folli personaggi creati da Gilliam.

Con lo scorrere dei minuti tutto ciò si esaurisce (o almeno passa in secondo piano) per lasciare spazio a una dimensione più poetica, che si muove rimbalzando tra universi i cui limiti, prima così certi, finiscono per sbiadire, passato e presente, realtà e fantasia; questi finiscono per mescolarsi, per sconfinare l’uno nell’altro come mondi coesistenti, soggetti a influenze reciproche. A livello narrativo questi salti tra i due universi sono permessi da una costruzione basata sui punti di vista dei suoi protagonisti, indissolubilmente legata alla loro percezione del mondo e ciò, similmente alla moltiplicazione dei relatori nei testi di Conrad, conferisce all’opera una certa ambiguità. I punti di vista su cui si struttura questo meccanismo sono due, Don Chisciotte e Toby, che diventano allegoria, si prestano a simboli essenziali nella comprensione della pellicola. Don Chisciotte, essere romantico e passionale, così sprofondato nel suo mondo di finzione da non poterne emergere, rappresenta la fantasia, la creazione, è la mise en abyme del film stesso e così, Toby, simboleggia l’artista; Toby è la chiave di tutto il film e ciò che lo sospinge, in quanto suo creatore in tutti i sensi: è colui che gira il corto omonimo al film e che, ancora prima, fa scaturire la scintilla della follia che tramuterà Javier in Don Chisciotte, andando a identificarsi necessariamente anche con Gilliam e rivelando ancora una volta la natura visceralmente personale della pellicola.

Questi simbolismi, con un’operazione tanto complicata quanto chiarificatrice, andranno amalgamandosi e, paradossalmente, delineandosi nell’emblematico e magico finale: il regista e la sua opera si uniscono e, come in un atto d’amore, due esseri diventano una cosa sola. L’artista viene assorbito nella sua opera (“We become what we hold on to” si sente pronunciare in un dialogo), lasciando il suo corpo terreno e mortale per echeggiare nell’immortalità dell’arte.