Midsommar – Ari Aster

Ari Aster, classe 1986, newyorkese di nascita. Laureato nel 2011 all’AFI Conservatory con il torbido e brillante corto “The Strange Thing About the Johnsons”, fin da questo primo lavoro è possibile riconoscere i tratti stilistici e tematici, le ossessioni che si riscontreranno nei corti seguenti (2012-2016) e nei lungometraggi che arriveranno più in là nel decennio.

Nel 2018, il grande esordio, gli occhi puntati, il successo globale: “Hereditary” fa il suo debutto al Sundance Film Festival tra gli applausi e le urla di terrore del pubblico e della critica. Un horror all’apparenza tradizionale, che parte dal dramma di un lutto famigliare (la morte della nonna della famiglia) per poi virare in territori sinistri e folli. Aster convince pienamente con il suo esordio, in grado di generare inquietudine e stupore grazie all’intelligenza della sceneggiatura, alla bravura degli attori, ad una struttura ben studiata e una regia eccellente nella creazione delle tensione e nella composizione delle inquadrature.

Il vero banco di prova arriva l’anno seguente, con “Midsommar”, il secondo lungometraggio. Aster parte ancora una volta da un dramma umano, questa volta non familiare (o meglio, in parte sì), ma relazionale: Dani è una giovane studentessa che vive una relazione amorosa con Christian, ma i due sono in crisi vista la morte dei genitori di lei per mano della sorella che compie un omicidio-suicidio. Lui, invece di starle realmente vicino, sta in realtà pensando di lasciarla. Andranno però in Svezia insieme ad altri studenti di antropologia, per partecipare alle festività di mezza-estate insieme alla famiglia di uno di loro.

Fino a qui tutto chiaro, no? In realtà non lo sarà del tutto, perché il talento di Aster sta anche nel saper stupire. Ma l’aspetto geniale è che non vuole stupire in maniera tradizionale, né vuole farlo fin dall’inizio. “Midsommar” infatti, si “spoilera” volontariamente fin dai primi secondi, in modo esplicito – la prima inquadratura è un mosaico che mostra in maniera stilizzata cosa succederà, così come fanno i murales sulle pareti delle casette del villaggio – e implicito – è palese, fin da quando i giovani arrivano nel villaggio che qualcosa non va, a partire dai bizzarri comportamenti degli abitanti.

Il film si rifà parzialmente a “The Wicker Man”, il capolavoro di Robin Hardy del ’73. “Midsommar” appartiene infatti al cosiddetto “folk-horror”, quel sottogenere nato negli anni ’50 e affermatosi negli anni ’70 grazie appunto a “The Wicker Man”, che tratta il radicalismo religioso e i riti pagani, basandosi su tradizioni popolari. Ma Aster è fondamentalmente un Autore, e quindi personalizza il genere alla base, cambia le carte in tavola. Prima peculiarità che salta all’occhio è l’ambientazione: bucolica e luminosa, apparentemente idilliaca. Un “horror alla luce del sole” quindi, una sfida difficilissima per un regista, inquietare chi guarda senza utilizzare il buio, l’oscurità, ovvero lo strumento principale per generare paura. In realtà è esattamente l’opposto: gli unici istanti in cui nel film non succedono tragedie, sono proprio i momenti notturni.

Altra caratteristica fondamentale di “Midsommar”, che è anche uno dei maggiori pregi, è il coraggio di Aster: l’opera è definibile come un “horror non-horror”, o meglio un “horror anti-horror” perché il film inquieta, sconvolge, ma si allontana dai topos del genere. Come già accennato nei due paragrafi precedenti, il film si stacca profondamente dall’horror commerciale per le masse: Aster va nella direzione opposta, girando un prodotto dal ritmo lento, dalla durata che tocca le due ore e mezza e che non si basa su un concetto di paura e di suspense come viene comunemente inteso.

“Midsommar” è senza dubbio sopra la media degli horror prodotti al giorno d’oggi per la cura dei dettagli e i temi interessanti che tratta: la struttura è quella tipica del genere, ma la rappresentazione sorprende, a partire dalla caratterizzazione dei personaggi, che divide gli americani dagli svedesi, mostrando due lati diversi della stessa medaglia, due modi opposti di vivere e intendere il mondo. I ragazzi statunitensi non comprendono la filosofia dei cugini nordici e sono disorientati, non sanno come agire, come comportarsi, e così anche lo spettatore che, non avendo appigli a cui reggersi, è stordito. Il punto di massima rappresentazione di tutto ciò, che è anche il punto di svolta narrativo, è la potentissima e incredibile sequenza del rituale della rupe, molto importante anche per l’utilizzo insolito che Aster fa della suspense: si pensa che succeda una cosa, ma pare troppo scontata e banale, quindi ci si aspetta un colpo di scena, che però non avverrà.

Importante l’uso dell’ironia nel film: “Midsommar” è infatti caratterizzato da una presenza massiccia del grottesco, un’ironia feroce e perversa, che non limita la componente horrorifica ma la arricchisce. Man mano che i minuti scorrono, l’ironia si fa sempre più forte, esattamente come l’horror, risultando perfettamente complementari. Ed è magistrale come il lato grottesco non strida con la storia raccontata, ma faccia sembrare il tutto più sconvolgente, riuscendo a stupire in continuazione e a meravigliare per gli eventi che si susseguono. Si tratta, nei punti più spinti, di un ridicolo volontario che nelle mani di un regista non esperto farebbe naufragare il tutto, ma Aster riesce invece a consolidare il suo stile e dare una grande prova di audacia.

“Midsommar” non vuole semplicemente spaventare, ma punta principalmente sul Perturbante, facendo vivere ai protagonisti un viaggio in apparenza familiare e rilassante, ma che in realtà produce un effetto straniante e di smarrimento. Ciò che si crede di comprendere o conoscere diventa invece oscuro e spiazzante. E la vicenda avvicinerà i personaggi ad una fine incredibile e crudele, eccetto che Dani, l’unica donna del gruppo: il terribile trauma subìto ha avuto un blocco devastante sulla sua personalità, e la permanenza nell’ambiguo villaggio sembra fungere da percorso di riconciliazione, di crescita interiore, di elaborazione e superamento del lutto.

E Aster immerge anche lo spettatore in un bellissimo incubo, tanto meraviglioso visivamente quanto profondamente disturbante. L’autore non punta a semplici jump scares, ma utilizza la potenza delle inquadrature per comunicare ciò che deve e vuole: la regia è assolutamente straordinaria, studiata minuziosamente nelle geometrie quasi “kubrickiane”, fluida e sinuosa nei movimenti di macchina. Il tutto aiutato dalla splendida fotografia, impeccabile nella funzionalità di “generatrice di incanto e paura” che il villaggio è per i protagonisti.

Le scenografie, la bellissima colonna sonora e i costumi caratterizzano perfettamente l’ambientazione, e gli attori convincono dal primo all’ultimo, in particolare la protagonista Florence Pugh: la giovane attrice riesce a reggere un ruolo complesso per tutta la durata del film, dando il meglio nel terzo atto. Dall’ipnotica sequenza della danza si ha un crescendo continuo, fino ad arrivare all’ultima, sublime inquadratura in primo piano di Dani: un sorriso non rassicurante, ma che ha una fortissima valenza, in quanto è come se la ragazza si fosse lasciata un tristissimo passato alle spalle, come se i traumi che l’hanno accompagnata – dalla morte della famiglia alla relazione tossica con Christian – fossero scomparsi, bruciati. Nella comunità svedese può trovare ora (forse) un nuovo inizio, un conforto.

Aster conferma quindi uno sguardo estremamente interessante, uno stile incredibile, un utilizzo del mezzo magistrale, riuscendo nell’ardua impresa di rinnovare il mondo dell’horror odierno, realizzando un’opera che più che un “semplice” film è una vera e propria esperienza sensoriale e immersiva. “Midsommar” è un’opera sempre più rara ai giorni d’oggi, eccezionale tecnicamente e ricca di sostanza, che colpisce al cuore e fa riflettere, restando nella testa di chi guarda per moltissimo tempo, maturando, crescendo sempre di più.

(Giacomo Zanon)