Mulholland Drive – David Lynch

Vincitrice del premio per la miglior regia al 54esimo Festival di Cannes, “Mulholland Drive” è la nona e penultima opera cinematografica del regista americano David Lynch, inizialmente concepita come serie televisiva spin-off del fortunatissimo “Twin Peaks”, e tramutata poi in lungometraggio grazie alla casa di produzione francese Canal+. Essa narra di Betty (Naomi Watts), una giovane aspirante attrice appena arrivata a Hollywood, che fa la conoscenza di Rita (Laura Herring), misteriosa donna sofferente di amnesia dopo un’incidente avvenuto sulla Mulholland Drive. L’intreccio narrativo si completa con la vicenda del regista Adam Kesher (Justin Theroux), che subisce il ricatto di una banda di mafiosi…

Lynch ha sempre trattato il Cinema nelle sue opere, cambiandone e innovandone linguaggio e schemi, giocando con i diversi generi (si pensi al road movie di “Cuore Selvaggio” che, attraverso il pulp, parla di una storia d’amore fiabesca) per stupire lo spettatore e modificare l’approccio che lo stesso ha verso la Settima Arte.

 “Mulholland Drive” si svolge nella città degli angeli e mette quindi al centro della storia il Cinema, non solo per ambientazione ma anche per temi trattati. Nel film si nota una pesante critica al mondo dell’industria hollywoodiana, rappresentata come un ambiente di individui avidi e disgustosi, interessati solo a potere, fama e soldi e non curanti delle persone altrui.

Lynch riprende parte della struttura del suo capolavoro “Strade perdute” (1997), nel  quale la seconda parte era una rappresentazione distorta e alternativa della prima: se però il film citato nel secondo tempo raffigurava la vita che il protagonista desiderava vivere, in “Mulholland Drive” è la prima metà che può essere vista come il sogno della protagonista, mentre la seconda mette in scena la cruda e triste realtà. Betty (Naomi Watts) non è la solare ragazza che abbiamo conosciuto nella prima ora e mezza, ma l’attrice depressa che vediamo nella seconda ora. Questo aspetto si ricollega al tema della critica all’industria del Cinema, che può realmente trasformare la vita di una persona in un incubo oscuro e inquietante. E il finale tragico completa impeccabilmente questo discorso, regalando una sequenza di rara potenza e invidiabile intensità.

Lynch dimostra per l’ennesima volta il suo genio costruendo ciò che di base è una commedia nera – specialmente per quanto riguarda le vicende tragicomiche del personaggio di Adam Kesher (Justin Theroux) – ma che provoca un profondo malessere in chi guarda. Ciò accade grazie alla maestria dell’autore americano che, conoscendo e avendo studiato perfettamente la psiche umana, sa che il grottesco e l’assurdo creano nello spettatore una sensazione di disagio non indifferente. Ed è proprio con il grottesco più assurdo, con il surreale, che il registra costruisce magistralmente la tensione, come nell’indimenticabile scena del mostro alla tavola calda.

Da non sottovalutare la qualità eccellente del lato grottesco dell’opera: Lynch non eccede mai con l’assurdo, evitando così di sconfinare nel trash. Il surreale è presente, oltre che nelle situazioni, negli stessi luoghi e nei personaggi: nel primo caso, il grande merito è della fotografia straordinaria di Peter Deming, che passa dai colori iperrealisti e splendenti della prima parte a quelli più tetri e cupi della seconda. Nel secondo caso, la sceneggiatura dello stesso Lynch regala dei personaggi eccentrici e sensazionali, a partire dai principali fino ai secondari, come il memorabile cowboy che sentenzia aforismi filosofici e la presenza luciferina del Club Silencio. Lo stesso Club Silencio rappresenta il passaggio dal mondo del sogno al mondo della realtà: un luogo suggestivo che diventa metafora del Cinema stesso, in quanto è il tramite che collega il mondo onirico (ovvero la prima parte del film e simbolicamente il Cinema stesso) a quello reale (rappresentato nella seconda metà del film).

E le due attrici protagoniste sono a dir poco superlative: Naomi Watts e Laura Herring si calano completamente nei loro personaggi e la relazione che intercorre tra le due è descritta eccezionalmente. Betty (la Watts) è una donna entusiasta, mentre Rita (la Herring) cerca di riprendersi ciò che gli è stato tolto (ovvero il ricordo), ma a causa di una chiave e di una scatola (che possono essere considerate come un MacGuffin hitchckockiano) i ruoli si invertono e una storia di sostegno e amicizia (che arriva a diventare una storia d’amore saffico) si tramuta in un racconto disturbante e allucinato di vendette e gelosie, di rancori e colpi di scena.

Le protagoniste danno vita ad un duello psicologico che può ricordare vagamente il capolavoro “Persona” (1966) del Maestro Bergman, e Lynch maschera la verità come lui e pochissimi altri sanno fare: lo spettatore non è mai completamente certo della veridicità della narrazione, ma stare al gioco del regista significa vivere il Cinema in prima persona e perdersi nelle note della canzone cantata da Rebekah Del Rio nel Club Silencio.

Badalamenti si riconferma il grande compositore che è, grazie ad una colonna sonora magnifica e straniante, e il montaggio di Mary Sweeney riesce a far scorrere il film in maniera perfetta, costruendo un puzzle di situazioni concatenate tra loro splendidamente.

Lynch mette in scena il tutto con la grandezza che lo contraddistingue: ogni inquadratura rappresenta una lezione di regia, i movimenti di macchina fluidi, primi piani e campi lunghi sono realizzati seguendo impeccabilmente le regole della grammatica cinematografica e sono capaci di emozionare lo spettatore ad ogni scena.

 “Mulholland Drive” ha il pregio enorme di costituire un’esperienza cinematografica come poche se ne vivono. Ogni sequenza travolge lo spettatore ed è in grado di regalare una moltitudine di sensazioni uniche e irripetibili. Dopo la visione si è frastornati e confusi, un effetto che solo i veri capolavori sono in grado di suscitare. E “Mulholland Drive” è un vero e proprio capolavoro.

(Giacomo Zanon)