Ombre rosse, di John Ford

I Western prodotti negli anni 20 erano considerati film di serie B, si trattava di produzioni relativamente poco costose, realizzate attorno a poche sequenze d’azione, con eroi stereotipati e storie fantasiose.
Ciònonostante, alcuni prodotti si presero più sul serio, specie con l’ascesa dei regimi totalitari, c’era bisogno di meno escapismo e più realismo.
Nacquero opere come “In the end of the trail” di McCoy, o “Il Cavallo d’acciaio” di John Ford, e nel 1930 Raoul Walsh realizza il primo western non muto della storia, “Il Grande Sentiero”.

Il cavallo d’acciaio (di John Ford, 1924)
Il grande sentiero (di Raoul Walsh, 1930)
In the end of the trail (Arthur Mccoy, 1932)

Il cinema prende quindi coscienza della sua funzione di riscrittura della mitologia americana anche in chiave politico – propagandistica, e la necessità di mostrare al pubblico le vere origini del paese si fece sempre più forte, così tanto che nemmeno l’avvento del sonoro (vero e proprio problema per le riprese in esterni) riuscì a bloccare quest’avanzata ideologica.
I costi e le attrezzature diventarono però sempre più ingenti, e come se non bastasse nel 1929 l’America fu colpita dalla grande depressione, che non contribuì certo a migliorare le prospettive.
Nonostante molti film ambiziosi, come “Il Virginiano” di Fleming (1929), “The Plainsman” di DeMille (1936) o “il sentiero del pino solitario” di Henry Hataway (1936), i risultati al botteghino permisero di coprire a malapena i costi delle attrezzature, così gli studios optarono per tornare ad un Western più spensierato e divertente, e lo mischiarono con il musical (riletto recentemente dai fratelli Cohen nel primo episodio de “La Ballata di Buster Scruggs” attraverso una poetica personalissima).

Il virginiano (Victor Fleming, 1929)
La conquista del west (Cecil Demille, 1936)
Il sentiero del Pino Solitario (Henry Hathaway, 1936)

A partire da quel momento nacque la possibilità di assistere a due mediometraggi al prezzo di uno, e presero piede i primi serial dedicati a personaggi famosi, erano prodotti semplici, dinamici e divertenti, plasmati con mezzi economici.
Adottando questo sistema, si riuscì a risollevare l’industria cinematografica, e sul finire del decennio ripresero le produzioni più curate e complesse, proprio quando un ulteriore conflitto mondiale era ormai alle porte. Giunge il 1939, l’anno di Ombre Rosse.

La locandina di Ombre Rosse (Stagecoach)

John Ford fu probabilmente il primo regista a comprendere come l’epica della frontiera potesse fungere da mezzo di propaganda politica, utilizzando il racconto mitologico di Omero per comporre un’opera che aveva il sentore di un atteggiamento d’accusa verso l’ipocrisia sociale ed il sistema classista, il quale conduce inevitabilmente all’estromissione dei diversi.
Distanziandosi da Griffith e modificandone il pensiero, Ford, spinto da una forte necessità storica, costruisce la sua personale nascita della nazione.
“Stagecoach” è il titolo originale, “Ombre Rosse” quello italiano, entrambi ci forniscono una chiave attraverso la quale poter leggere l’opera.
Nel primo caso si pone l’attenzione sulla diligenza, che può essere interpretata utilizzando come strumento il “triangolo semiotico” del linguista svizzero Ferdinand de Saussure, dove il mezzo di trasporto si scompone in significante (il simbolo), il referente (ovvero la cosa, l’oggetto in questione) ed il significato (il concetto espresso mediante i segni, che permette di coglierne il valore intrinseco).
La diligenza è quindi una costruzione artificiale attraverso la quale poter raggiungere una meta, ma è anche (e soprattutto) metafora dei rapporti umani, un microcosmo nel quale convivono personalità estremamente diverse, in fuga dal buonismo e dai falsi valori della società, un “non – luogo” mobile che si fonde al paesaggio circostante, estremamente selvaggio ma anche necessario per il ritrovamento dell’umanità e del vivere sociale dei personaggi, i quali attraversano l’unico spazio non corrotto e non civilizzato.

Nel secondo caso invece, le Ombre Rosse del titolo si riferiscono agli indiani Apache, incombenti, quasi invisibili, veri e propri non-personaggi utilizzati dal regista per impedire il dissolversi della tensione, sottolineare il timore psicologico dei caratteri, e permettere l’unificazione finale a favore del respingimento del nemico comune. Infine andrebbe posta particolare attenzione alla rivisitazione dell’eroe e al triplice collegamento degli spazi di svolgimento principali, che pongono a confronto due possibilità discorsive differenti (il western d’assalto alla diligenza e quello urbano, con tanto di banditi e duello finale).

Il protagonista qui è un fuorilegge apparentemente cinico che nasconde però una forte umanità, la stessa che fino a quel momento è stata la tematica fondamentale del genere western, saper affrontare ciò che impone il dovere.
Il suo nome è Ringo, e ci viene introdotto con un rapido zoom in avanti, forte di fazzolettone, cappello e fucile, un eroe di genere classico solo a primo impatto però.
Sono presenti infatti caratteristiche estrinseche ed intrinseche che vengono utilizzate da Ford per rivisitare la tipicità della sua figura.
In primo luogo il nome è molto meno americano rispetto a quello di personaggi visti in opere precedenti, e appartiene ad un bandito realmente vissuto, un pistolero della banda McLaury chiamato Johnny Ringo, in secondo luogo la solitudine, l’assenza di legami affettivi e l’indipendenza, non trovano spazio all’interno del personaggio, che alla fine fuggirà via con la sua amata, dopo aver ucciso la sua parte selvaggia (i tre banditi) .

Tratte le dovute conclusioni, quindi, mi sembra doveroso affermare che l’inflessibilità dell’avanzamento narrativo è l’elemento che costituisce il fulcro della tragedia dei personaggi e che ne permette un dispiegamento estremamente chiaro, consentendo anche un risoluto spostamento degli effetti visivi (i totali della Monument Valley in contrasto con i campi medi e la simmetria degli interni, l’illuminazione, l’atmosfera…) ed evitando capricciosi romanticismi.
Lo spazio congiunto della diligenza accende i conflitti, ma riesce ad oltrepassarli attraverso una nuova ricapitolazione.

È di grande rilievo, inoltre, il contrasto tra l’ambiente selvaggio e la civiltà.
Laddove il primo si pone dinnanzi ai personaggi (e allo spettatore) come luogo all’interno del quale ritrovare il vivere sociale e l’umanità, il secondo rappresenta la deumanizzazione dell’individuo, la sua spersonificazione e i valori che gli vengono imposti.
Londsburg è invece la meta da raggiungere, lì si sono rifugiati 3 banditi, lì non vi sono donne “finte” e di “giusta” moralità, lì si dirige il banchiere corrotto, insieme a tutti gli altri personaggi, segno che la civilizzazione non si è ancora manifestata.
Questo consente a Ford di chiudere il cerchio di genere e sviluppare una forma discorsiva estremamente importante, quella del duello urbano, che si discosta dal “western di assalto alla diligenza” mostrato nei minuti precedenti, ma allo stesso tempo lo racchiude all’interno di un contesto che si fa amplio e totalizzante.
John Ford aveva così trovato il punto d’incontro perfetto tra il richiamo storico, la narrazione fantastica, l’attendibilità psicologica e la questione popolare della messa in scena western, delineando Ombre Rosse come l’esempio perfetto di una stabilità tradizionale tra i princìpi arcaici, l’intuitività della scrittura e l’armonia formale (Orson Welles si ispirò proprio a questo film per la messa in scena di Quarto Potere).