PINOCCHIO – Matteo GARRONE

PINOCCHIO – Matteo Garrone (2019) – Durata: 120′

La famosa fiaba di Carlo Collodi torna al cinema, dopo la trasposizione cinematografica operata da Roberto Benigni che qui ricopre le vesti di Mastro Geppetto.


Altri pinocchi italiani:

  • Tontolin / Polidor in “Pinocchio” (1911) di Giulio Antamoro
  • Totò in “Totò a colori” (1952) di Steno
  • Nino Manfredi (Geppetto) e Andrea Balestri (Pinocchio) in “Le avventure di Pinocchio” (1972) di Luigi Comencini
  • Carmelo Bene in “Pinocchio ovvero lo spettacolo della provvidenza” (1998) di Carmelo Bene




Una scelta, quella di Benigni, che ha fatto storcere il naso a molti, ma che in realtà è stata ben ponderata dal regista che scelto Toni Servillo vira bruscamente verso il vero Pinocchio della cultura italiana.

Benigni da sempre considerato personaggio scomodo, imprevedibile, ribelle che prendeva in braccio Berlinguer e appellava Giovanni Paolo II come Wojtilaccio, è sempre stato un personaggio che ha costruito la sua carriera sulla menzogna.
Celebre la storia secondo cui la madre non credeva al racconto di una visione privata di
“La vita e bella” con il papa.

L’attore premio Oscar ha costruito la sua filmografia su personaggi caotici e bugiardi come il Giuditta de “Il piccolo diavolo” che prende in giro padre Maurizio e crea il caos o Dante Ceccarini / Johnny Stecchino che manda in confusione un intero paese.
Il gendarme Gambrelli figlio illegittimo di Clouseau che è un autentico disastro della natura proprio come il padre in “Il figlio della Pantera Rosa” di Blake Edwards o il Loris de “Il mostro” che viene scambiato per l’assassino che terrorizza il quartiere, fino ad arrivare al personaggio di Guido che cerca, mentendo, di non far vivere gli orrori dell’olocausto al proprio figlio.


Benigni è da sempre stato quel pinocchietto un po’ vivace, un po’ bugiardo che vuole essere felice e libero mentre tutti glielo impediscono e in questo l’incontro con Garrone, un altro di quelli che vuole liberarsi e finalmente esplorare mondi fiabeschi, è stato fondamentale.

«I scream, you scream, we all scream for ice cream»
Daunbailò (Down by Law) di Jim Jarmush

Matteo Garrone ha per tutta la vita avuto una fascinazione verso la fiaba di Collodi.
«Ho iniziato a disegnare Pinocchio a 6 anni».

Pinocchio infatti è il sogno di una vita, quel burattino tenuto nascosto nello scantinato che finalmente prende vita e scappa dal Garrone di Dogman, L’imbalsamatore e Gomorra e che attraverso i campi del cinema popolare empatizza con lo spettatore, lo emoziona e lo fa ritornare bambino nella sua “sala cinematografica” dei balocchi.
Lo spettatore viene inghiottito dentro lo schermo come ha fatto il mostro marino con il burattino e alla fine dell’avventura diventa consapevole, diventa UOMO.

Questa volta il regista romano, da sempre interessato alla pittura, si trasforma nell’ultimo dei macchiaioli che fugge dalla scuola tradizionale e si dà letteralmente alla macchia.
Nascondendosi tra cespugli e campi diventa per l’ennesima volta il fuorilegge che protegge la tradizione italiana, che protegge se stesso da quel cinema popolare basso che difficilmente riesce a spiccare il volo e che sempre più imita le grandi produzioni americane.

(Che fine ha fatto il cinema popolare?)

L’opera di partenza, quella di Collodi, tramite i suoi personaggi, le sue metafore e allegorie riesce a tirar fuori già tanto di quel politico e sociale analizzato per anni da Garrone nella sua filmografia che quindi qui si limita ad esplorare nella sua totalità quel mondo fantastico da cui è sempre stato affascinato e di cui ha sempre messo i segni nelle sue opere (l’orco e la principessa di “Primo amore” ecc…) fino ad arrivare, prima di Dogman, a costruire un vero e proprio saggio audiovisivo sulla sua parte più fiabesca.


“Il racconto dei racconti” infatti, nonostante le aspre critiche è stata l’opera che meglio ha spiegato agli spettatori cos’erano quei segni, quegli archetipi provenienti dalla fiaba che sempre di più sporcavano i film di cronaca nera prodotti dal Garrone di Gomorra, dove il regista tramite le storie tratte da Cunto de li cunti di Basile, riusciva a tratteggiare inconsapevolmente tutti i pregi e difetti dell’umanità che già sondava lo scrittore di fiabe popolari in epoca barocca.


La possessione dell’altro, il desiderio malato di possedere ciò che non si ha, il peccato di non riuscire a rimediare ai propri errori se non commettendone altri.
Tutte tematiche già presenti nel cinema di Garrone, ma espresse secondo modalità fiabesche ancora legate ad un mondo reale e tangibile e che invece esplodono in tutto il loro splendore fantastico, a metà tra la fiaba da intrattenimento e alla moralità della favola, nella versione garroniana di Cunto de li cunti.

È già ne “Il racconto dei racconti”, che si trovano le tracce di quel Pinocchio che Garrone disegnava a 6 anni.

Come dietro gli animali e i mondi fantastici delle favole di Esopo si nasconde sempre una forma di insegnamento, una morale comprensibile a tutti, dietro il film di genere si nasconde la capacità di parlare tramite un registro meno serioso e più universale.

Il genere popolare è sempre riuscito a mettere in discussione, tramite le sue allegorie e i suoi mostri, il genere umano.

Tutta la mitologia greca parla dell’uomo, Frankenstein di Mary Shelley parla dell’uomo, tutti i mostri di Carpenter parlano dell’uomo e delle sue paure.
La fiaba lascia totale libertà a Collodi, infatti, di esplorare il reale.
Di mettere in campo questo picaro della letteratura italiana (come diceva Calvino) che tramite le sue avventure rocambolesche, in un mondo ostile, riesce meglio di qualsiasi scritto sul giornale a parlare del reale, a parlare della vita.

Pinocchio infatti altro non è che la storia di un’iniziazione, un pezzo di legno che aspira a trovare la sua anima.

Il gatto e la volpe, Lucignolo altro non sono che le passioni del corpo che distraggono e tentano Pinocchio, che giocano sulla sua curiosità per fargli perdere la strada maestra.
È la curiosità, la tentazione, che trasforma in asino Pinocchio, un po’ come il curioso Lucio della metamorfosi di Apuleio.
Asini che come il Balthazar di Bresson dovranno scontrarsi con il male dell’uomo, il tutto mentre una Fata Turchina, come una Madonna cristiana, cerca di ricongiungere il figlio al padre.

La storia è piena di Pinocchi e Geppetti, poveri che diventano i più ricchi del mondo alla scoperta del miracolo della VITA, di quel legno che si tramuta in carne.

L’opera di partenza di Collodi è per questo uno dei testi in assoluto più importanti della letteratura italiana, priva del bisogno che Garrone (figlio di quest’opera e che come Pinocchio si ricongiunge al padre) costruisca il film.

Il regista, come un Enrico Mazzanti, si limita a disegnare, pitturare, spargere le pennellate sulla tela come avrebbero fatto i pittori della scuola di Barbizon o i Macchiaioli.
Riesce a rappresentare tramite luci, colori e quelle macchie così semplici il respiro reale di una storia fiabesca pronta a perdersi nei paesaggi toscani, laziali e pugliesi trascendendo la pittura stessa e riuscendo a ricreare il mondo fantastico e non ben geolocalizzato di Pinocchio.
Un mondo costantemente intriso da tutta quella secchezza del reale e quella povertà italiana espressa già dal lavoro di Comencini per la tv negli anni 70.

È tornato il cinema popolare italiano, i frammenti fiabeschi sono nuovamente esplosi, questa volta non limitati dal formalismo come in Tale of Tales.
Con un Benigni Geppetto ormai cresciuto che non ha più bisogno di dire bugie ed è diventato libero di fronte al miracolo della vita, e un regista che rincorre la sua magnifica ossessione come il Luciano di Reality.
Come Peppino Profeta, Garrone, riesce a confezionare questo nuovo grande classico, ad imbalsamare e rendere eterno il suo amore verso l’opera di Collodi.

Il regista decide di non fare la fine del suo imbalsamatore, abbassa la pistola, rende eterno il suo amore e crea un classico del cinema popolare italiano.

«per favore ditelo che non è il solito film con sangue e violenza di Garrone»

(in conferenza stampa a Roma).

-Carmelo Leonardi-