Sbatti il mostro in prima pagina, di Marco Bellocchio

Marco Bellocchio, nel corso del suo lungo corpus filmico, si è sempre contraddistinto come uno degli sguardi più acuti del panorama socio-politico italiano.

Il film si inserisce in quel circuito cinematografico politicamente impegnato che ebbe tanta fortuna nel decennio (e anche oltre) 1960/1970. Un campionario di film d’inchiesta che vedono in Gian Maria Volontè il maggior esponente attoriale. Dal crudo realismo di Elio Petri in La classe operaia va in paradiso, alla spericolata allegoria di Todo Modo. Passando per la collaborazione con Francesco Rosi sia per le ricostruzioni storiche da puro cinema di guerra in Uomini Contro, sia per approdare all’impressionante prova recitativa ne Il caso Mattei. Un percorso seguito fino agli ultimi scampoli di vita dell’attore italiano, dove non ricordare l’imponente e drammatico Porte Aperte del semi esordiente Gianni Amelio sarebbe un delitto.

Con “Sbatti il mostro in prima pagina” seguiamo le immorali vicende di Giancarlo Bizzanti, uno dei redattori della storica rivista “Il Giornale”, un uomo che travalica le regole morali di un giornalista, ossia la ricerca ossessiva della verità e del fatto compiuto, per realizzare una strumentalizzazione politica di un caso di cronaca nera. Nel contesto violento e terroristico degli anni di piombo, costituito da una confusione costante, piena di manipolazioni e falsificazioni del diritto di parola, non è difficile individuare una chiave di lettura del film semplice ed efficace. Malgrado alcuni monologhi, del giornalista Bizzanti, altisonanti e realizzati attraverso iperboli (le lezioni di semantica e le sue correlazioni con l’informazione); il film segue dei binari didattici per niente ambigui e di pura denuncia sociale. Avviene quindi un distaccamento da altre opere del regista, decisamente più incline a ragionare per metafore visive e di scrittura.

Le invenzioni estetiche sono poche e mai virtuose; il film, al contrario, risulta essere più incline a creare un connubio didascalico (nel senso positivo del termine) tra quello che si vuole dire (quindi una disamina sociale e politica) e come mostrarlo a livello scenico.  In questo senso è pregnante sottolineare l’impostazione del quadro filmico per mezzo di dissolvenze di titoli di giornale, mettendo in guardia lo spettatore di quello che è appena successo (in campo o fuori campo); un’idea vicina a un certo tipo di cinema muto in cui si è sempre informati su quello che accade. Queste funzioni di linguaggio “primitive” camminano di pari passo con una forma sporca e sgranata, tipica del cinema di genere italiano anni 70, principalmente poliziottesco. Tralasciando ciò, le sequenze superano la pura finzione, non differenziandosi troppo da un taglio documentaristico (specialmente nelle battute iniziali del film). Il camuffamento della realtà infiamma l’odio “primitivo” nella popolazione, come ci suggerisce, sul finale, un Volontè calmo ma cosciente delle malefatte compiute, in cui spiega come scatenare disprezzo tra il popolo, seguendo i principi della propaganda di Joseph Goebbels.

Giancarlo Bizzanti è un giornalista pronto a tutto pur di distruggere gli oppositori politici del suo giornale

Il lungo flusso di “falsa” informazione non è relegato esclusivamente alle parole e ai dialoghi, ma anche a certi suggerimenti della messa in scena; fogli stampati, macchinari in movimento, continuo lavoro del personale sono una costante per tutto il film (omettendo, però, una parentesi pseudo melodrammatica). In sintesi, con tutto questo materiale di forte impegno civico, non può che venire spontaneo un parallelismo con ogni epoca storica, passata o contemporanea.

La collaborazione tra Marco Bellocchio e Gian Maria Volontè è il prodotto di un film dai palesi intenti educativi e morali, discutendo e mettendo a paragone i complessi e poco idilliaci rapporti tra stampa e potere, tra democrazia e totalitarismo.