Sì, di Luca Ferri

Quando ci si approccia al cinema di Luca Ferri è impossibile non rimanerne incantati. Durante la visione si ha come la sensazione di nuotare in pieno oceano, immersi in una dimensione ermetica, sconosciuta e misteriosa, al contempo affascinante ed inquietante, un ecosistema perfetto e fragile, inesplorato e sommerso, di cui si percepisce la profondità senza riuscire a scorgere il fondo, a carpire del tutto i segreti che custodisce e le regole che lo governano, il senso e i significati sottesi.

I film di Ferri sono un insieme di suggestioni, di immagini e musiche di cui non ci viene fornita la chiave di lettura. Perché non è univoca o forse perché la dobbiamo trovare da soli lasciandoci pervadere dai fotogrammi che ci scorrono davanti, o magari perché, d’improvviso, tutto può trasformarsi in un gioco di libere associazioni. Eppure, pur essendo il lavoro di Ferri così meticolosamente studiato e strutturato dal punto di vista formale, riesce comunque a risultare più evocativo che concettuale, facendo emergere il lato intimo ed emozionale dell’opera.
Succede anche con , cortometraggio di 19 minuti presentato fuori concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia.

Un uomo si addormenta su di una poltrona e cade in un oblio orrorifico fatto di caccia e uccisioni di orsi polari.

Lo schermo si divide in due e, come nelle profondità marine, se da una parte arrivano sferzanti correnti gelide come le immagini di repertorio dei cacciatori trionfanti vicino ai corpi esangui delle loro prede, dall’altra – paradossalmente – troviamo ad accoglierci una calda dimensione casalinga e familiare in cui scorrono le parole d’addio di un suicida, cariche di serafica malinconia (e la mente corre alle pagine di diario di Pavese).

E’ una visione mobile quella di Sì, in cui lo spettatore sceglie liberamente su cosa focalizzare la propria attenzione, creando narrazioni alternative, immaginando traiettorie e connessioni differenti, personali e ancora più intime perché il desiderio – o il bisogno – di senso va a sollecitare l’inconscio e l’immaginazione.

L’atmosfera mortifera del corto, unico apparente trait d’union tra le due metà dello schermo, è enfatizzata dalle musiche funeree di Dario Agazzi. La programmaticità tipica dell’impianto filmico del regista bergamasco riesce comunque a lasciare emergere un ritratto crudo e disarmante dell’essere umano, fragile e crudele, vittima e carnefice. Uno squarcio di insopprimibile sofferenza, a testimoniare che non ci può essere vita senza morte, sogno senza veglia, poesia senza metrica.

(Chiara Zuccari)