The Card Counter, Paul Schrader (2021)

Uno degli ultimi grandi registi americani, Paul Schrader, ritorna sotto i riflettori di Venezia con un’opera che brilla d’oscurità, che vive nelle zone interstiziali dell’Occidente: Il Collezionista di Carte è la messa in scena di un’America sotterranea che brulica con forza malefica dietro le luci abbaglianti dei casinò e si nasconde nella ritualità.
Dal 4:3 che nel bellissimo First Reformed stringeva la visione e costringeva il corpo del reverendo Toller in una morsa di tensione esistenziale insopportabile, Schrader passa a un aspect ratio di 1.66:1, che pur concedendo più libertà allo sguardo (anche perchè First Reformed lavorava con maggiore insistenza sui corpi), continua a limitarlo rispetto al widescreen moderno, e questa è una scelta ben consapevole, come scopriremo nel film; oltre al formato, anche qui c’è un ritorno sempre bressoniano alla forma del diario, che scandisce la vita interiore di William Tell come lo aveva fatto per Ernst Toller. Quest’ultimo anti-eroe schraderiano, il reverendo Toller, che vive di echi espliciti a Diario di un curato di campagna, era un uomo malato e consumato dal fardello dei peccati collettivi di cui si faceva carico, il suo corpo subiva concettualmente le conseguenze di una ricerca di senso fallita (il tentativo di guardare il mondo attraverso la lente del sacro); allora, per tentare di dare pace ai suoi demoni, approcciava prospettive esistenziali inedite che tentavano di preservare il progetto divino, di sublimare dinamiche reali all’interno di un disegno più alto, ma anche queste non erano che illusioni: l’unica risposta possibile, sembrava dirci nello splendido finale, è un contatto umano.
Ecco, William Tell è un personaggio diverso. Più che a Toller, William Tell sembra essere vicino ai cani sciolti di Cane Mangia Cane (Paul Schrader, 2016), cioè un ex-galeotto che deve fare i conti con il sistema che lo aveva espulso, e quindi si trova di fronte a un reinserimento forzato nella società, che sotto un velo di possibilità nasconde un’esistenza senza pietà e inevitabilmente ai margini. Ma questa è solo un’assonanza, un richiamo (come temperamento e caratura morale siamo molto lontani dal granitico personaggio interpretato da Oscar Isaac) che non trova poi appiglio concreto né a livello narrativo né tantomeno stilistico con quell’allucinazione pulp che era Dog Eat Dog.

William Tell è ancora diverso, Il Collezionista di Carte è diverso.
Dopo essere uscito di prigione, l’anti-eroe di questa ultima fatica di Schrader sembra essersi re-incastrato in un’altra gabbia, fatta di routine e rituali maniacali che lui ha costruito per proteggersi, per nascondersi; Tell vive essenzialmente aggrappato alla forma e all’abitudine, senza rischi o deviazioni dal tracciato, ormai convinto di aver pagato il debito con la società. Tuttavia, quando sotto le spoglie di un personaggio secondario ma cruciale (Cirk), il passato riemerge, con lui riaffiorano il senso di colpa, il sangue e la violenza del suo passato da torturatore: ciò innesca un processo che rinsalda il debito profondo che i peccati proiettano sulla sua anima. Quel senso di colpa che sembrava espiato dal periodo di detenzione in realtà è ancora lì, che agisce sotto traccia e che palesa la sua presenza rompendo l’aspect ratio vigente e il rigore della messa in scena per esplodere in una sequenza in widescreen di torture, con una prospettiva deformata e allucinata, quasi liquida, dove deborda la violenza e si smarriscono gli appigli visivi; anche l’esplosione musicale porta il segno di un’entrata irruente nella vita interiore del protagonista. La portata nefasta di questa sequenza e di quel passato che riemerge, oltre che rinvigorire la gravità del senso di colpa, disegna una parabola circolare per cui dalle ceneri della violenza possano rinascere altre dinamiche nefaste (Cirk e la sua sete di vendetta), la corruzione di nuove anime e la proliferazione della malvagità occidentale.
Il successivo ritorno al formato dominante (come abbiamo detto, 1.66:1), che coincide con il ritorno alla routine, è ormai profondamente corrotto e da quest’incrinatura iniziano a nascere i germi virtuali di un’espiazione che quindi deve ancora attualizzarsi; è qui che Tell si riavvicinerà a quel contatto umano che aveva estirpato dalla sua vita e proverà a sconfiggere un’America fondata sui soldi e sulla distruzione dell’altro (l’uomo che costantemente incontra ai tavoli da poker, accompagnato da una bandiera a stelle e strisce, non è che il segno di tutto ciò), col fine di evitare un ritorno alla brutalità e la corruzione dell’anima di Cirk, sedendosi al tavolo da gioco di un battaglia dove il banco vince sempre, anche dove il banco non esiste.
Schrader riesce a far respirare l’aria satura e torbida di un universo corrotto, dove sembra regnare un’entità malvagia e invisibile (evocata dalla colonna sonora con suoni malefici, risate e gorgoglii che giungono in scena come echi di un mondo sotterraneo e infernale) che segue il destino infausto dei personaggi, quasi fatalisticamente condotti per mano in questo scontro fatale. William Tell, che ormai ha compreso la velleità dei suoi intenti, abbandona il tavolo da gioco della lotta, il “final table” (che nel frattempo, come un fantasma moderno, manifesta la sua fame attraverso i blinds, che divorano lentamente il suo stack), perchè la battaglia vera si svolge in un mondo tutto personale di espiazione, prima attraverso il sacrificio di un corpo da redimere, nella sequenza della tortura, che avviene quasi religiosamente in fuoricampo, concettualmente come un confessionale dei corpi; poi attraverso la purificazione dell’anima, in un finale che rivisita i territori di Pickpocket (e del suo baciamano cristologico attraverso le sbarre di una cella), dove Schrader getta uno sguardo di pietà divina sull’uomo e la sua miseria, sull’America (e l’Occidente) e la sua corruzione profonda.