Un Amleto di meno – Carmelo Bene

Hamlet, il testo classico shakespeariano, venne riformulato dal letterato francese ottocentesco Jules Laforgue.

Nell’ultimissima opera cinematografica di Bene, il drammaturgo riprende le retini del testo di Laforgue e opera un processo di ulteriore smarcamento dal lavoro dello scrittore inglese.

Un Amleto di meno si configura come un affascinante saggio critico-teorico che per mezzo della famosa tragedia si permette, con grande coraggio e provocazione, di parlare contemporaneamente del mezzo teatrale e del ruolo del fragile artista connesso a esso. Il finale, con l’omicidio di Amleto, è una plausibile dichiarazione d’intenti nel voler declassare il potere manipolatorio del suo stesso autore, e quindi dell’artista nel senso più ampio del termine, meccanismo ampiamente sperimentato in Nostra signora dei turchi e maggiormente equilibrato in quest’ultima fatica.

Come solito fare dalla sua poetica, Bene maltratta gli strumenti cinematografici estromettendo paratesti e rendendo in questo modo l’opera difficilmente approcciabile dagli spettatori meno interessati alla materia. L’impressionante forza recitativa dell’Amleto interpretato dallo stesso Bene, che si auto sabota sbeffeggiandosi e ironizzando sui personaggi di contorno, crea un cortocircuito con l’egocentrismo del Bene artista. Il suo carattere perentorio si assimila ottimamente al ruolo di direttore di una compagnia teatrale che si muove tra i teatri europei. L’intellettuale italiano non riesce a distinguere l’artificio finzionale della messa in scena teatrale, da un dietro le quinte che assume i connotati di un viaggio psicanalitico nella mente di Amleto, con concezioni peculiari della letteratura novecentesca, freudiana in modo particolare.

Amleto, quando apparentemente si sveste dal suo personaggio, possiede un rapporto decisamente intimo con le donne del gruppo teatrale, attrici che maltratta sul set inserendogli dita in bocca e bisbigliandole estenuanti discorsi filosofici-esistenziali sulla vita, sulle persone, sulla società.  Al tempo spesso li vede, inconsciamente, come delle valvole di sfogo su cui appoggiare i suoi complessi edipici derivativi dai suoi genitori, dal padre morto (uno dei pochi elementi rimasti intatti dell’opera originale) e probabilmente anche dalla madre. La disparità con cui la regia riprende le figure maschili, differisce dall’attenzione che riversa sulle donne, riprese su specifiche angolazioni che risaltano le loro forme erotiche, allineandosi con la trasgressione della cinematografia italiana dei due decenni 1960 e 1970.

È la figura di Polonio che si fa garante di questo assunto, un anziano che in una vertiginosa sequenza usa il monologo, strumento di scrittura che nel film sostituisce i semplici dialoghi, per analizzare il mito di Edipo in correlazione al personaggio di Amleto, mentre spoglia e aggroviglia numerosi nudi femminili con dei lunghi fili di tela che si tramuterà in un bagno di sangue ideato dal principe della Danimarca. È come se Bene prendesse in giro l’idea stessa di cinema, dando una chiave di lettura psicanalitica all’interno dello stesso film, senza aspettare letture interpretative a posteriori dagli spettatori. Curiosamente Polonio sembra non parli con nessuno, un soliloquio che si rivolge direttamente a chi guarda.

Il film scava ben oltre le linee guida shakespeariane, inserendo potenti digressioni che sfoggiano la profonda conoscenza umanistica di Bene, cavalieri della tavola rotonda e musicalità classiche in primis. Le allegorie stendono un filo conduttore che forma una serie di scene ipertestuali e sequenziali che, se escludiamo il finale, possono essere viste come piccoli cortometraggi distinti e separati dal resto. Non è un’opera di facile fruibilità, la sua funzione destabilizzatrice la si nota subito dalle pittoresche scenografie e dai carnevaleschi costumi, frutto incestuoso della degenerazione del lavoro di Bene e figlio di un’altra epoca rispetto all’iconografia classica del teatro elisabettiano. Un Amleto in meno corrode i dogmi della grammatica filmica, piega la sua funzione di contenere una linearità narrativa comprensibile, disprezzando e non rispettando il linguaggio cinematografico. Un’odissea  vorticosa che assalta gli occhi con un mastodontico bombardamento sensitivo. 

Disarticola sotto una nuova veste il capolavoro di Shakespeare smontandolo nei suoi codici, dirigendo magniloquenti sequenze che superano di gran lunga i “fellinismi” esasperati di quegli anni. Folgorazioni filmiche bellicose che eccedono in una violenta dissacrazione psichedelica. Una convulsa polifonia di immagini e suoni che restituiscono un valore alieno a un film dal prezioso potere artistico.

(Paolo Birreci)