Venezia76: Ad Astra, di James Gray

Ad Astra – In concorso

Regia:James Gray
Durata:124’
Lingua:inglese
Paesi:Usa
Sceneggiatura:James Gray, Ethan Gross
Fotografia:Hoyte Van Hoytema
Montaggio:John Axelrad, Ace and Lee Haugen

Il rapporto vigente tra James Gray e lo spettatore contemporaneo si basa su una radicale ed anacronistica onestà di sguardo, bisogna guardare oltre l’immagine.

Ed è proprio questo ciò che il regista americano fa con Ad Astra, crea un percorso fatto di campi e controcampi apparentemente basato su una semplice messa in relazione dei caratteri, e poi ci toglie ogni tipo di rassicurazione eliminando quello stesso controcampo, collocando i personaggi all’interno di una stasi continua che costringe ad un insistente ripensamento del senso dell’immagine e all’interpretazione delle loro emozioni più recondite.

Ad Astra, rispetto a film sci-fi americani recenti come Interstellar o Gravity, opera proprio su questa mancanza di sicurezza, non cerca risposte facili e retoriche ma lascia con il beneficio del dubbio.

D’altronde il cinema di Gray si è sempre raccontato attraverso narrazioni archetipiche e dai paradigmi classici, ma ha anche avuto il coraggio di mettere in dubbio ogni sorta di tranquillizzazione.

Lo sguardo che la sua opera ha infatti sull’universo è irresoluto, aleatorio ed insistentemente squarciato. Questa complessità motoria del film crea un’unione anomala che pone in tensione il retroterra esistenziale ed il culto del cinema americano (classico e moderno).
Il concetto di famiglia non è più ascrivibile ad un mondo chiuso ed intimo, ma a tante piccole realtà che cercano di resistere ad un annientamento pre-impostato.

Se In “Little Odessa” veniva raccontato l’impossibile ritorno a casa di un gangster escluso dalla propria comunità, qui un astronauta tenta di ricongiungersi alla vita attraverso la ricerca del padre disperso nello spazio; il cinema di Gray si fa universale, e proprio mentre sta per raggiungere il cosmo torna indietro ed esalta l’interrogativo, rifiutando di sottostare ai dettami narrativi imposti dal suo “luogo” di formazione, quello della classicità.

(Gabriele Plutino)