Venezia77 – Nomadland, di Cloé Zhao

In Concorso /108’/ USA

“See you down the road”.
E dopo il Leone d’oro, la strada (asfaltata) è quella che conduce all’Academy.
Che il film di Cloé Zhao fosse lanciatissimo per la corsa agli Oscar, rimandati di due mesi e che per l’anno della pandemia si terranno ad aprile, era cosa già nota da tempo.

Regista indipendente entrata dentro gli schemi produttivi della Disney (The Eternals) e Frances McDormand, già vincitrice di due Oscar per Fargo e Tre manifesti, formano un pacchetto stabile e affascinante che con un film che parla di nomadi, libertà e non appartenenza al sistema (quanto è bello però lavorare da Amazon) farà sicuramente breccia nei cuori degli spettatori; soprattutto gli orfanelli di McCandless.

La storia è tra le più semplici in assoluto:
Grande recessione, crisi nel mercato immobiliare.
Fern (Frances McDormand), che ha perso il marito, decide di abbandonare il Nevada per girare gli Stati Uniti con il suo van.
Tra lavori saltuari, territori impervi ma di una bellezza sconfinata e piccoli imprevisti, la nostra protagonista farà la conoscenza di altri nomadi alla ricerca del proprio posto in strada.

Se, come Paolo scrive per Abel, Sportin’ Life è il primo vero film post covid, Nomadland di Cloé Zhao è una delle tante narrazioni possibili, e maggiormente vendibili, nell’era della quarantena.
Un po’ tutti da dentro le nostre case ci siamo sentiti prigionieri.
Un po’ tutti avremmo voluto come Fern staccare tutto e perderci nelle lande desolate.

La regista cinese cresciuta professionalmente negli Stati Uniti torna con il suo stile poetico e sospeso, dove l’immagine si apre spiritualmente agli stessi campi larghi del suo cinema, a parlare di un tipo d’America che a poco a poco scompare.

Ci sono tanti punti di contatto con la sua precedente opera, The Rider.
Se il film del 2017 utilizzava il western per parlare di un western che ormai non esiste più se non nell’immagine che continua a rendere immortali le gesta di Brady Jandreau, Nomadland cerca di diventare normale prosecuzione di quel discorso funerario sul cinema in assoluto più americano di sempre (quello di Ford e Hopper), concentrandosi questa volta sul road movie.

The Rider, di Cloé Zhao

Nomadland è un film che parla costantemente di impossibilità di tornare sui propri passi.
Impossibilità anche di riuscire a stare per un attimo fuori strada e tornare nella propria abitazione.

Frances McDormand non è più giovane come un tempo, sembra quasi essere costantemente braccata.

Fugge dal ricordo di una vita che ormai non le appartiene più; quella delle case riscaldate; delle cene in famiglia e dei nipotini da tenere in braccio.
E mentre viaggiando spedita col suo van abbandona l’America stazionaria, si trova costantemente a contatto con piccoli deserti che si aprono poi su città in continua espansione.

Claudia Cardinale in ‘C’era una volta il West’ di Sergio Leone

Leone col suo plongeè apriva, a Claudia Cardinale, le porte di una terra in continuo sviluppo, dove iniziavano a vedersi le prime ferrovie.
Cloé Zhao, alla sua Fern, apre una strada fatta di Amazon e Wall Drug.

Il cinema americano è un cinema di attraversamenti, tra ritorni in casa e fughe dalla civiltà.
L’America è sempre stata sulla strada di Kerouac pronta a vagare come un nomade alla costante ricerca di nuovi insediamenti in un paese considerato terrà di libertà e nuove opportunità.
Nel cinema americano i protagonisti sono i paesaggi che riempiono lo schermo e fanno sentire minuscolo l’essere umano che li attraversa.

Il progresso avanza.
John Wayne non si sente più a casa e sceglie il deserto.
I ragazzi del ’68, un anno dopo, fuggono sulle note di Born To Be Wild.
I tempi cambiano, le parole antiche che ci fanno ritornare a stretto contatto con la natura non esistono più o hanno perso di significato (come ricorda Mereu).

Velatamente sono queste le tematiche che dovrebbe affrontare Nomadland.
Un’interessante analisi moderna di un cinema americano classico di cui si decantano le laudatio funebris dai tempi della New Hollywood e di cui forse proprio ora, in questo periodo di isolamento e nuova re-definizione dei linguaggi, abbiamo bisogno per porre delle nuove basi.

Il film però sfugge a tutti i profondi processi d’analisi.
Lascia l’affascinante e autobiografica storia di Blackburn nel Sud Dakhota per cercare di inseguire Frances McDormand in mezzo alle enormi rocce dei deserti americani senza riuscirla mai ad acchiappare.
Tra pionieri a cui non interessa più la permanenza e fughe da un possibile nuovo amore, in nome di una sana quanto testarda autodeterminazione, Fern è sfuggente, priva di vita come se della sua libertà infinita in realtà sia prigioniera.

Il film, prodotto dalla stessa attrice protagonista, non riesce ad allargare le sue panoramiche documentando un mondo in continua espansione dove forse veramente non c’è più modo né bisogno di creare insediamenti nuovi e allora si fugge fin quando le ruote dei van tengono e la benzina nel serbatoio non finisce.
È a quel punto che i panorami smettono di essere protagonisti e vengono impallati dalla McDormand.

Il film della Zhao tramite un racconto che si presterebbe benissimo, potrebbe imbastire un discorso sul linguaggio che come un nomade viaggia tra i vari medium e che non ha più bisogno di luoghi fisici e stabili, ma al contrario di quanto fatto in The Rider, con il suo youtube archivio di mondi ormai inaccessibili, la Zhao scade nel qualunquismo.
Non si riesce a svincolare da una Frances McDormand troppo autoritaria e grande per un tipo di cinema che invece dovrebbe aprirsi a scenari sconfinati.
Un’ operazione un tantino costruita ad hoc, come quella imbastita sull’America e il cinema americano fatto di cavalli, rivoltelle e pellicce, che regalò a Leonardo Di Caprio l’Oscar nel 2016.

Frances McDormand in the film NOMADLAND. Photo Courtesy of Searchlight Pictures. © 2020 20th Century Studios All Rights Reserved

Il cinema della regista cinese è un cinema interessantissimo a livello teorico, ma che sembra aver scelto, lasciando le rocce del deserto che potrebbero forargli le gomme, di rimettersi in carreggiata e tirare dritto verso Wall Drug e Amazon dei dipendenti felici, che molto probabilmente le regaleranno palcoscenici un po’ più noti.

(Carmelo Leonardi)