Venezia77 – Notturno, di Gianfranco Rosi

In Concorso / 100′ / Italia – Germania – Francia

Due anni fa, grazie ad un docente, ho cambiato sguardo.
Non avevo mai ragionato su quanto un’immagine potesse spingersi oltre.
Non ero mai arrivato a capire che anche se l’immagine è fluida e libera come un liquido, prima o poi incontrando i giusti nemici, che sia il sole o una pezza per asciugare, anche l’arte contenuta in quel immagine può seccarsi per sempre e lasciare unicamente delle chiazze senza senso su un fondo bianco.

Due anni fa un docente ci parlò di Rivette e delle sue critiche al finale di Kapò di Pontecorvo, accusato dal regista francese di voler unicamente ostentare la sua bravura con un’abberrante carrellata sul corpo morto di Emmanuelle Riva.
Pontecorvo si difenderà dalle accuse dicendo che in realtà quello che gli interessava era mostrare gli altri detenuti che continuavano a marciare in profondità di campo.

Ma la questione rimane centrale, fino a dove può spingersi l’immagine?

Di sicuro possiamo dire che Rivette, fosse ancora in vita, non le manderebbe di certo a dire e braccherebbe Gianfranco Rosi come si bracca un terrorista.
Perchè lo spettacolino messo in piedi dal regista di Notturno è da terrorista dell’immagine, da chi vuole fare film di denuncia e fa invece un’operazione “da denuncia”.

Se da una parte ci sono i documentari della coppia D’Anolfi – Parenti che risultano affascinanti per analisi dei fenomeni e ritmo, quello di Rosi sembra un progetto vecchio, ricostruito a tavolino come si ricostruivano i vecchi documentari per History Channel con gli attori ad interpretare i vari personaggi storici di cui si parla.
Come se lo spettatore non potesse subire il trauma di trovarsi spaesato davanti a qualcosa che per lui non è facilmente riconoscibile.
C’è bisogno di estetizzare, di mettere un costume e di fare una bella color alla nostra immagine per beccarsi gli applausi e l’appoggio del pubblico, quello che probabilmente non andrà a vedere Wiseman in quest’edizione o quello che ha trovato rozzo e sconclusionato Sportin’ Life.

La prerogativa del documentario sarebbe quella di raccontare le lotte intestine, le dittature e l’apocalisse omicida dell’ISIS che ha colpito il medio oriente.
Per farlo Rosi filma per tre anni sui confini tra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano senza mai rendere riconoscibile un luogo rispetto ad un altro e senza quindi scendere in profondità nella questione.
Di fatto è come se Rosi, volutamente (forse anche un po’ per paraculaggine) volesse creare questa zona grigia dove muovere i suoi pupazetti.
Un viaggio intorno (perchè comunque se ne rimane a debita distanza) ad un dolore universale dove un marionettista racconta l’inferno di cui manovra i fili.

Si sa che parlare di “cinema del reale” e quasi sempre una menzogna.

Nemmeno per Wiseman, che per il suo approccio veniva associato ad una mosca che vola all’interno della stanza, si può parlare di reale assoluto, in quanto c’è sempre una scelta nel momento in cui si decide di piazzare una telecamera, uno sguardo veicolato, ma nel film di Rosi questa falsa costruzione è sempre più presente, sempre più sadica, come se si provasse gusto nell’ascoltare e far fuoriuscire nuovamente il dolore altrui.
Non c’è umanità, non c’è reale interesse.
Dei personaggi visti, mai nessuno ritornerà in scena, vengono sfruttati e abbandonati a se stessi con una freddezza che fa quasi orrore.

Entr’acte, di René Clair (1924)

La macchina ci ha dato nuove prospettive, è riuscite a farci violare l’inviolabile, a farci vedere sotto la gonna delle ballerine di René Clair, ma c’è sempre un limite, c’è sempre una moralità dell’immagine da dover rispettare e Gianfranco Rosi, per l’ennesima volta, dimostra di avere l’umanità di un negriero.

Grizzly Man, di Werner Herzog (2005)

Per ogni Herzog che decide in Grizzly Man di non dare ulteriore voce al dolore, c’è un Gianfranco Rosi che fa partire una registrazione Whatsapp che fa ricadere nell’incubo più nero una madre che ha per sempre perso la propria figlia.

(Carmelo Leonardi)