In Concorso / 100′ / Italia – Germania – Francia
Due anni fa, grazie ad un docente, ho
cambiato sguardo.
Non avevo mai ragionato su quanto un’immagine
potesse spingersi oltre.
Non ero mai arrivato a capire che anche
se l’immagine è fluida e libera come un liquido, prima o poi
incontrando i giusti nemici, che sia il sole o una pezza per
asciugare, anche l’arte contenuta in quel immagine può seccarsi per
sempre e lasciare unicamente delle chiazze senza senso su un fondo
bianco.
Due anni fa un docente ci parlò di Rivette e delle sue critiche al finale di Kapò di Pontecorvo, accusato dal regista francese di voler unicamente ostentare la sua bravura con un’abberrante carrellata sul corpo morto di Emmanuelle Riva.
Pontecorvo si difenderà dalle accuse dicendo che in realtà quello che gli interessava era mostrare gli altri detenuti che continuavano a marciare in profondità di campo.
Ma la questione rimane centrale, fino a dove può spingersi l’immagine?
Di sicuro possiamo dire che Rivette,
fosse ancora in vita, non le manderebbe di certo a dire e
braccherebbe Gianfranco Rosi come si bracca un terrorista.
Perchè
lo spettacolino messo in piedi dal regista di Notturno è da
terrorista dell’immagine, da chi vuole fare film di denuncia e fa
invece un’operazione “da denuncia”.
Se da una parte ci sono i documentari
della coppia D’Anolfi – Parenti che risultano affascinanti per
analisi dei fenomeni e ritmo, quello di Rosi sembra un progetto
vecchio, ricostruito a tavolino come si ricostruivano i vecchi
documentari per History Channel con gli attori ad interpretare i vari
personaggi storici di cui si parla.
Come se lo spettatore non
potesse subire il trauma di trovarsi spaesato davanti a qualcosa che
per lui non è facilmente riconoscibile.
C’è bisogno di
estetizzare, di mettere un costume e di fare una bella color alla
nostra immagine per beccarsi gli applausi e l’appoggio del pubblico,
quello che probabilmente non andrà a vedere Wiseman in
quest’edizione o quello che ha trovato rozzo e sconclusionato
Sportin’ Life.
La prerogativa del documentario sarebbe
quella di raccontare le lotte intestine, le dittature e l’apocalisse
omicida dell’ISIS che ha colpito il medio oriente.
Per farlo Rosi
filma per tre anni sui confini tra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano
senza mai rendere riconoscibile un luogo rispetto ad un altro e senza
quindi scendere in profondità nella questione.
Di fatto è come
se Rosi, volutamente (forse anche un po’ per paraculaggine) volesse
creare questa zona grigia dove muovere i suoi pupazetti.
Un
viaggio intorno (perchè comunque se ne rimane a debita distanza) ad
un dolore universale dove un marionettista racconta l’inferno di cui
manovra i fili.
Si sa che parlare di “cinema del reale” e quasi sempre una menzogna.
Nemmeno per Wiseman, che per il suo
approccio veniva associato ad una mosca che vola all’interno della
stanza, si può parlare di reale assoluto, in quanto c’è sempre una
scelta nel momento in cui si decide di piazzare una telecamera, uno
sguardo veicolato, ma nel film di Rosi questa falsa costruzione è
sempre più presente, sempre più sadica, come se si provasse gusto
nell’ascoltare e far fuoriuscire nuovamente il dolore altrui.
Non
c’è umanità, non c’è reale interesse.
Dei personaggi visti, mai
nessuno ritornerà in scena, vengono sfruttati e abbandonati a se
stessi con una freddezza che fa quasi orrore.
La macchina ci ha dato nuove prospettive, è riuscite a farci violare l’inviolabile, a farci vedere sotto la gonna delle ballerine di René Clair, ma c’è sempre un limite, c’è sempre una moralità dell’immagine da dover rispettare e Gianfranco Rosi, per l’ennesima volta, dimostra di avere l’umanità di un negriero.
Per ogni Herzog che decide in Grizzly Man di non dare ulteriore voce al dolore, c’è un Gianfranco Rosi che fa partire una registrazione Whatsapp che fa ricadere nell’incubo più nero una madre che ha per sempre perso la propria figlia.
(Carmelo Leonardi)