Venezia77 – Nuevo Orden, di Michel Franco

In Concorso /86’/ Messico Francia

È curioso come alla fine, come ricordava anche Ungari, il destino dei film sia collegato tra di loro.
Come se ogni film visto non sia altro che un aggiornamento perpetuo di quella prima luce proiettata sul nostro volto la prima volta che abbiam messo piede in sala; in un delirio quasi surrealista dove le immagini vengono a montarsi e rimontarsi nella testa del cinefilo di turno.

L’anno scorso il dominio messicano di ben due anni ad opera di Guillermo del Toro e Alfonso Cuaron, è stato interrotto dalle rivolte di un clown dalla risata isterica.

Ed è curioso come le storie si intreccino e a presentarsi con la rivolta quest’anno sia stato uno dei pochissimi messicani alla mostra del cinema, quel Michel Franco che lottava in concorso per il Leone d’oro, ma che si è dovuto accontentare del secondo posto sul podio.

Il suo Leone d’argento, Nuevo Orden, è un film che comunque non è riuscito a mettere tutti d’accordo.

Molto conosciuto ai festival e affermatosi con Después de Lucia, vincitore nella sezione Un Certain Regard a Cannes, Michel Franco aveva dichiarato come questo fosse il lavoro più importante fatto fin’ora, ma il risultato, se non per le note capacità di creare interesse nello spettatore con una regia niente affatto male, delude.

Nuevo Orden è una distopia che mette in scena una rivolta scaturita dalle sempre più importanti disparità sociali ed economiche che affliggono il Messico; dove il popolo, di cui non si riesce ad aver traccia all’interno delle immagini di Franco, mette a ferro e fuoco alcune zone del paese.
Alcuni rivoltosi si presenteranno davanti le porte di una villa borghese dove si sta svolgendo il matrimonio di Marianne (il punto di vista più forte dell’intero racconto).

L’epilogo è più che scontato.

La trama ricorda una delle sequenze più sconvolgenti di Bunuel, quella di Viridiana in cui i poveracci irrompono e si lasciano andare ad un caos orgiastico fatto di alcol e violenza che annienta la sacralità dell’alta borghesia.

Viridiana, di Luis Bunuel

Ma Franco con Bunuel ha poco a che fare.
Nel regista di Calanda la quadratura delle sue metafore, dei suoi incubi, andava perfettamente a declinare un pensiero politico chiaro e pungente che ha fatto di Bunuel uno dei registi più colpito dalla censura che, per ovvie ragioni, sotto la dittatura franchista portò il regista spagnolo a operare tra Francia, Messico e Stati Uniti.

Franco invece è un situazionista.
Uno che preferisce, quasi feticisticamente, sconvolgere operando sul dolore senza mostrarne le cause e gli effetti.
Potremmo dire che il cinema di Michel Franco è un cinema del controllo, freddo e spietato, come quello di Haneke, ma che mette in mostra solo il soffocamento tramite il cuscino, bypassando tutto il resto e estirpando a priori i germi di quel male che il regista austriaco, invece, mette in mostra (tranne per Benny’s Video dove il processo di svelamento avviene al contrario) nei primi due atti di ogni sua opera.

Potremmo dire che se Bunuel si concentra sulla mano di chi preme il grilletto andando a formulare una vera e propria discussione socio-politica sulla questione, a Franco interessa solo il proiettile che esplode sul viso del borghese di turno.

Nuevo Orden è come il quadro iniziale che si presenta davanti al pubblico. Una tela piena di colori sgargianti immersi nel caos più totale.
Un caos ben incorniciato, come quello che si ristabilisce una volta chiusa la storia, con cappio al collo, e che promette da lì a poco nuovi violenti sviluppi.
Una storia ciclica.
Un eterno ritorno del dolore e della violenza costruito ad hoc per il momento.

Continuano i disagi in America, dove rimangono vive le proteste dei BLM e dove al confine si viene decimati dal Coronavirus, con i messicani chiusi tra le proprie mura e il turismo sessuale e medico in continua proliferazione.
Franco potrebbe inglobare tutto questo malcontento, fare un film che si allarga a macchia d’olio come il liquido verde che bagna le scale della villa; potrebbe aprire il suo sguardo e quasi sfondare la quarta parete come fece l’anno scorso la maschera di Joker, divenuta simbolo comune di protesta in tutto il mondo, ma invece si limita al semplice sensazionalismo.

Il flash forward iniziale è la più grossa testimonianza del tipo d’approccio che vuole avere verso il suo pubblico.
Vuole tenere alta l’attenzione.
Giocare col suo spettatore come un gatto gioca col topo.
Comandare il suo respiro con un montaggio di immagini veloce e di impatto che si alterna a schermi neri e silenziosi che creano fastidio al ritmo del flusso audiovisivo.

È un film girato indubbiamente bene, ma che risulta anche parecchio problematico.
Non vive delle attese e dei continui dialoghi con la morte fuori campo di Tim Roth in Chronic, poi rovinati da una scena finale bizzarra e stupidamente didascalica, ma sceglie di caricare il colpo e sparare a ripetizione peccando, appunto, di attese e costruzione.
È quasi impossibile interagire con le figure di Franco, è quasi come se tutti quelli sotto la sua macchina da presa siano dei peccatori che devono scontare la propria Salò.

Un leggero passo indietro rispetto ai suoi ultimi film che già lasciavano intravedere non pochi problemi in fase di costruzione.

(Carmelo Leonardi)