Venezia77 – Pieces of a Woman, di Kornél Mundruczò

In Concorso / 128′ / Canada, Ungheria

Al lido arriva un film che indubbiamente farà parlare di se.
Mundruczò è un regista che negli anni ha solcato già i palchi di tanti festival fino ad arrivare nel 2014, con White God, ad ottenere in quel di Cannes il premio Un Certain Regard.
Autore ibrido.
Capace di coniugare un tipo di cinema più fisico e più di genere, con frequente utilizzo di macchine a mano e nessuna paura di mostrare nel dettaglio scene dal forte impatto visivo, alla capacità di fare un tipo di cinema più sospeso e psicologico che non da punti di riferimento ed ha la capacità di catturare lo spirito della sua dura messa in scena.

Se con White God questa doppia personalità non riusciva a venir fuori, lasciando spazio solo ad un buon film con un notevole impianto formale che non riusciva ad avere la ferocia politica del film da cui sotto mentite spoglie iniziava il suo percorso, il White Dog di Samuel Fuller, con Pieces of a Woman riesce finalmente a colpire.

Mundruczò questa volta compie un preciso e netto taglio all’interno del suo racconto.
I primi quaranta minuti (questo il minutaggio che passa prima di vedere il titolo sullo schermo) sono tra i più mirabolanti momenti di cinema dell’intera mostra.
Forti, violenti, pronti a farci scendere subito nel dramma.

Un piano sequenza lunghissimo ci porta all’interno dell’abitazione di Martha e Sean, interpretati da Shia LaBeouf e Vanessa Kirby, i due sono in procinto di avere un bambino e la donna ha deciso di voler partorire in casa.
Ma la felicità e la spensieratezza dei due si trasformerà da lì a poco in una delle più nere tragedie.
Il parto non andrà a buon fine a causa di un’ostetrica confusa che non riuscirà a chiamare in tempo l’ambulanza.
Da lì non si farà altro che seguire i nove mesi che seguono l’evento che irrimediabilmente segnerà la famiglia Carson.

Da qui il regista decide di cambiare volutamente forma andando a prediligere una forma più intima e mentale che rompe la continuità dell’apertura senza stacchi del primo atto.
Il film inizia a smembrarsi, a farsi a pezzi.
I suoi personaggi diventano cani randagi tra i cieli grigi di Boston.
Fuggono e si ringhiano contro impossibilitati ad elaborare il lutto.
La perdita della bambina segnerà le loro strade e mentre il caso dell’ostetrica diventerà un vero e proprio caso mediatico, il conflitto familiare si farà sempre più pesante e insostenibile.
Tra un LaBeouf, segnato anch’esso dalla perdita e in cerca di affetto, ma tendente ad una forte autodistruttività, che riversa le colpe del suo senso di solitudine sulla moglie; e una Ellen Burstyn in versione dittatoriale che si intrufola nelle vicende familiari dei due.

Alla prima con un cast americano stellare e seguito nella produzione del film dalla moglie Kata Wéber e da Martin Scorsese, Mundruczò si conferma finalmente essere un autore capace di gestire stelle di tali portate e riesce a confezionare un racconto emotivo e intimo che risulta brillante anche in fase di scrittura.
Una vicenda autobiografica che gli permette di mettersi a nudo e alternare un primo momento di pura furia registica ad una seconda parte più d’analisi, che si interroga sulla capacità di riuscire a ripartire affrontando un dolore che ci segnerà per tutto il resto dell’esistenza.

(Carmelo Leonardi)