Victor Victoria e il potere della risata

Il potere della risata. Non sono in molti coloro che possono vantare di saperlo giostrare e adoperare a loro dovere, oltre che a loro rischio e pericolo. E’ inflessibile, può comportare rischi, ambiguità non volute e, nel peggiore dei casi, irrecuperabili cadute di stile. L’ironia è principalmente un’arma, spesso a doppio taglio. Forse perché non esiste lavoro più difficile che far ridere la gente. Un discorso applicabile anche agli autori di commedie, soprattutto quando la risata assurge a diventare un mezzo per far ridere il pubblico, arrivando a farlo riflettere, fino a renderlo consapevole. Blake Edwards oltre a generare stilemi, ha portato il suo stesso genere a un punto fermo e di riferimento.

Julie Andrews è Victoria, un soprano dalle doti innate, ridotta sul lastrico a patire la fame (un momento che Peter Jackson omaggerà nel suo “King Kong” del 2005) che arriva ad accettare la proposta di Todd (un eccentrico Robert Preston) di vestire i panni di una performer in travestimenti, come compromesso personale per tirare a campare e avere fama e successo.

Victor Victoria (Blake Edwards, 1982)
King Kong (Peter Jackson, 2005)

Questo è Victor Victoria, il capolavoro di un genio. Quasi seguendo parallelamente le orme del suo personaggio protagonista, Edwards punta a realizzare l’irrealizzabile. Tocca e ribalta le sfumature del tema che caratterizza la sua storia (e mille altre che ne arriveranno dopo) e ne innalza ogni aspetto, tanto reale, quanto ambiguo. Il suo humour è sottilmente feroce, pacato, tagliente. Ma dosato con intelligenza, restituendo una delicata eleganza, al punto da risultare profondamente umano in tutto ciò che indica e rappresenta. Non si limita a una frivola ed effimera rappresentazione elitaria, ma sfugge sapientemente a tutte le trappole figlie del tema trattato, evitando una facile strumentalizzazione. Non si compiace nel tratteggiare il mondo che riprende all’interno di questa ricostruzione parigina degli anni ’30, ma la porta a un livello parallelo verso coloro che lo ripudierebbero per partito preso. Il linguaggio asciutto, trasparente, sfaccettato, anche provocatorio, risulta abile nel tratteggiare il carattere goliardico dei suoi personaggi (soprattutto Preston) con un taglio talmente raffinato, che non si ancora alle facilonerie del macchiettistico da solita commedia degli equivoci.

A tornare sono anche le “maschere”, quelle della festa finale del precedente “La pantera rosa”, qui invece atte a smascherare ancora una volta dogmi e bieche costrizioni e aspettative sociali. Perché Edwards sottolinea quanto “la gente crede in quello che vuole”, quanto la verità non possa quasi scindere dalla finzione, essendo la stessa finzione il frutto di una mente che accetta solo ciò che vuole vedere. In questo possiamo trarre un suo wilderiano “nessuno è perfetto”, dettato stavolta con un disincanto più marcato. La sua è una chiave comunicativa molto più espansiva, che mira ad accogliere un pubblico più vasto, comunicando in maniera ferrea attraverso la forza dirompente del suo sarcasmo. Qualità che si porranno come fondamenta per la carriera di futuri cineasti che ne trarranno da esso una poetica più attualizzata, stratificata e personale. Uno fra tutti: Almodóvar, che di Edwards ne erediterà lo spirito provocatorio, focalizzandosi però su aspetti più marginali della società, tenendo in risalto il gusto loquace ed eloquente delle loro ambiguità, attraverso una messa in scena fortemente figlia della sua terra, con una fotografia “a pastelli”, che con Victor Victoria troverà caratteristiche comuni in quello che, a livello formale, sarà forse il punto più alto della sua carriera: “La mala educacion”.

Some Like It Hot (Billy Wilder, 1959)
Pedro Almodóvar in un scatto di Nigel Parry

La ferocia dirompente ma posata di Edwards, nel regista spagnolo si evolverà in una poetica che lo porterà a raccontare le stesse dinamiche, anche quelle della stessa Victor Victoria, ma ogni qualvolta con una forma che non rinuncerà a un marchio di fabbrica riconoscibile, che lo porrà da allievo a maestro, stillando nuovi punti fermi, come nella tradizione del miglior cinema.

(Ricki Loglisci)