Wife of a Spy, di Kiyoshi Kurosawa (2020)

1940, città di Kobe, la notte prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Il mercante Yusaku Fukuhara decide di recarsi in Manciuria. Una volta tornato, spinto da un presupposto etico, decide di mettersi contro il proprio paese per comunicare agli Stati Uniti quello che i Giapponesi stanno facendo in quel luogo.

Nel corso dei decenni Kurosawa ha maturato inedite combinazioni e trasfigurazioni dei generi più disparati, dalla commedia al poliziesco, dal Yakuza movie all’horror. Proprio i suoi contributi alla nascita dello psycho-horror giapponese, tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del Duemila gli hanno valso la fama di “padrino del J-Horror”, genere con il quale, a partire dal suo capolavoro assoluto “Cure” si è fatto conoscere all’estero.

Con il suo ultimo film, pur rispettando le regole dello spy-movie più classico (la storia è di hitchcockiana memoria) Kurosawa pare non voler rinunciare alle pratiche che lo hanno reso a tutti gli effetti un autore. In Wife of a Spy, infatti, gli spazi vanno allargandosi e si adattano più al suo sguardo che alle dinamiche del genere.
La gestione degli spazi e delle traiettorie che i personaggi compiono all’interno del quadro diviene quindi il fulcro attorno al quale ruota il film (come quasi sempre nel suo cinema)

Gli attori sono posizionati a diverse profondità di campo, e si muovono lungo le diagonali tracciate dalla composizione dell’inquadratura, i loro sguardi scappano per poi sistematicamente reincontrarsi evidenziando così il maremoto sentimentale che intercorre tra loro. Essi si muovono principalmente all’interno di campi medi, disposti attraverso composizioni di luce (sempre molto minimali) che sillabano ed estendono la profondità degli ambienti.
Se in “Cure” l’orrore era (a partire da quella X incisa sui corpi delle vittime) totalmente astratto e deflagrava subliminalmente negli angoli, nei movimenti, nei gesti e in base alla posizione dei personaggi, qui ha una definizione diversa ed è evidenziato, a partire dall’utilizzo da parte dei personaggi del super8 documentaristico, con il quale vengono proiettati filmati dei crimini bellici che contrastano la storia principale.
Essendo però l’orrore una condizione emotiva di violenta repulsione e spavento, occorre qui fare una distinzione con la componente “horror” del film, legata perlopiù alla dimensione soprannaturale e fantasmatica della narrazione, qui presente secondo lo stile tipicamente kurosawiano.

La dimensione più trascendente del film si manifesta infatti a partire da ciò che risiede “al di là dello schermo”, in uno spazio-tempo altro, proprio come in “Cure” e in “Pulse”. È lì che la tensione assume una sua forma, quando all’interno della “scatola magica” si palesano fantasmi, e le immagini manifestano una natura quasi “esoterica”. Il piano sequenza sulla proiezione cinematografica degli orrori commessi in Manciuria, con esperimenti batteriologici commessi sulla popolazione locale, è terribile.

Il film (come gran parte delle opere di Kurosawa, con protagonisti che a un certo punto precipitano negli abissi della follia) degenera lentamente in una disperazione esistenziale, andamento già sottilmente annunciato da una scena in particolare, quella in cui Yusaku chiede a sua moglie se lei “ha apprezzato l’ultimo Mizoguchi”, un riferimento a “Zangiku monogatari” o al poco visto “Naniwa onna” , due dei capolavori del grande Kenji Mizoguchi e girati proprio nel periodo in cui è ambientato il film di Kurosawa.
La scena è molto importante perché fornisce la traiettoria principale del film.

Mizoguchi era un regista sottilmente spietato, che utilizzava gli auspici relativamente benigni delle convenzioni melodrammatiche per celare verità estreme e profondamente inquietanti. È qui che Kurosawa mette le carte in tavola, e tutti i colpi di scena selvaggi che si verificano durante il climax sono abilmente accennati durante questa conversazione apparentemente innocua.

Forse il personaggio di Taji finisce per essere un po’ troppo monodimensionale, non c’è mai stato alcun dubbio su come si sarebbe comportato una volta trovatosi dinnanzi ad una certa scelta. Questo rende i confronti finali tra lui e Satoko leggermente piatti, anche a causa di eccessive evidenziazioni che confermano costantemente le possibili letture e che tolgono allo spettatore dubbio e autonomia interpretativa.
Tirando le somme si ha la percezione che il film rimanga maggiormente sul piano della costruzione geometrica della messinscena e della narrazione rispetto alla limpida essenzialità di altre sue grandi opere, ma il fascino di questo regista e dei suoi lavori, come succede quasi sempre con i grandi autori, rimane immutato.