Venezia 78 – Dune, di Denis Villeneuve

Come la navicella che vaga tra la nebbia e le rovine lasciate da Scott nel 1982, con a bordo il cacciatore di taglie K che cerca di ripulire il passato, anche in Dune abbiamo la stessa nebbia, la stessa desolazione e vermi giganti, a sostituire Gosling, che dalla sabbia divorano qualsiasi intruso interrompa il loro sonno. Denis Villenueve continua con la sua opera di riscrittura e “pulizia” cercando di esser lui stesso il nuovo cacciatore di taglie, o verme, alla ricerca di mitologie da rianalizzare. Questa volta è toccato a Dune di Frank Herbert, già trasposto televisivamente con due miniserie, e da Lynch e Jodorowsky (progetto poi che si è arenato) per quanto riguarda la sala.

“Padre e se io non fossi il futuro di casa Atreides?”

Chiede il giovane Paul interpretato da Chalamet al Duca Leto interpretato dall’onnipresente Oscar Isaac.

Vengono abbandonati i toni oscuri e quasi sognanti di David Lynch per mettere tutto sotto la totale luce del sole. Luce che acceca i protagonisti, avvolti dalle continue tempeste di sabbia e dai tormenti della crescita. Perché Paul è ancora acerbo, deve mettere massa muscolare ed essere più sicuro di sé se vuole diventare un vero guerriero della casa Atreides. Non si sente pronto a subentrare al padre ed è continuamente con la testa per aria a farsi guidare dai sogni, come se fosse ancora rimasto alla versione lynchana di Dune. È Jason Momoa, personaggio più riuscito del film, a destarlo dal suo sogno ricordandogli che “le cose importanti accadono da svegli”.

Da quel momento in poi Dune diventa un film sempre più fisico, sempre più di corpi. Ogni tanto continua a slabbrarsi verso forme più cariche di attese e nebbia, che narrativamente parlando si spera vengano chiarificate nel secondo capitolo. È un modo nuovo di intendere il blockbuster che si porta dietro per ovvi motivi problemi strutturali e di scrittura dei personaggi. Alcuni veramente troppo abbozzati per essere credibili e suscitare empatia. Il tutto insieme ad evidenti sottolineature per ottenere il favore del pubblico stanco dopo più di metà film dai toni quasi da slow cinema (ma vi assicuro che non è ai livelli del collega Blade Runner 2049).

La cosa fastidiosa di un progetto interessante come Dune è per l’appunto il fatto di dover confrontarsi con un pubblico alieno a certe forme di dialogo e dover scendere spesso e volentieri a compromessi solo per una mera questione di vendibilità del prodotto. E Villenueve lo sa bene vista la fine fatta da 2049 che, nonostante la poca accessibilità e tolto il peso iniziale di Scott, era un film nettamente più completo del Dune visto oggi che in tre ore cerca il coraggio di sperimentare, ma subito si arresta rimandando al prossimo capitolo.

E allora incuriositi dall’operazione e da un Villeneuve che vuole mutare forma per correggere il passato in un presente pieno di nebbia, un po’ come i suoi personaggi, rimandiamo il giudizio finale alla parte due. Sperando che la nebbia si diradi rivelando uno Chalamet e un Villeneuve più coraggiosi.