Il diritto di opporsi, di Destin Daniel Cretton

Un viaggio nell’abisso oscuro del braccio della morte, un viaggio nei territori statunitensi legati da un sottotesto di razzialità, il viaggio di un giovane avvocato alla ricerca, “fino a quando ne avrò le forze”, dell’uguaglianza dei diritti tra qualsiasi cittadino di carnagione nera o bianca.

Il giovane regista di origine hawaiana e prossimo a entrare nel marvel cinematic universe, si occupa di un ennesimo caso che evidenzia le falle di un sistema che promette di cambiare nel corso del tempo, ma in cui le regole rimangono intatte.

Un destino, quello del cineasta in questione, che vede illustri precedenti nel cinema di denuncia americano. Ricordiamo il grande classico con Gregory Peck “Il buio oltre la siepe”(citato in questo stesso film), il duro “Anatomia di un omicidio” interpretato da un lunatico James Stewart, o nel basilare e autentico film di Roger Corman “L’odio esplode a Dallas”. Alcuni di loro mettono in risalto gli ambienti politici e istituzionali come le carceri e i tribunali, altri invece attuano una disamina sociale più sul popolo rispetto al sistema legislativo.  

Il film in programmazione nelle sale italiane dal 30 gennaio prevede un cast di nomi altisonanti e in ascesa. Il Creed dello spin off di “Rocky”, la Brie Larson di “Captain Marvel”, e il veterano Jamie Foxx  qui alla prese con un ruolo non dissimile da un sequel giudiziario di “Django Unchained”.

Una parata di stelle della Hollywood politicamente democratica che appoggia una scelta narrativa in perfetta coerenza con l’eroismo americano del più classico dei termini. Cretton demarca una netta linea di separazione tra bianchi e neri, una comunità, quest’ultima, che vede un diritto negato tramutatosi in un urlo di disperazione che rimbalza tra le mura bianche nelle celle del braccio della morte. Spesso si tratta di casi irrisolti o falsificati e liquidanti con una semplice esecuzione sulla sedia elettrica, senza possibilità di una riapertura del processo.

Ma se dovessimo tralasciare per un attimo le buone intenzioni, nel film manca quasi del tutto un respiro cinematografico degno di rilievo. La natura didascalica preconfezionata si muove su binari distribuiti da step ordinari e privi di una messa in discussione degli stessi protagonisti della vicenda.

L’avvocato mai arrendevole, i prigionieri di attesa di giudizio, l’uomo bianco e razzista sostenitore del processo originale ai danni della riapertura del caso e di una possibile eliminazione della condanna a morte. Non esiste un’evoluzione necessaria in questi casi, tutto si concentra su situazioni di stallo e progressione dell’indagine.

Emotivamente interessanti i momenti prima della morte di un condannato, ma rimane costantemente la sensazione di una lamentela nei confronti della politica trumpiana, di un saggio orizzontale schematico che prende come presupposto gli innumerevoli processi abbandonati alla deriva. Un prodotto a cui manca la materia prima, il cinema.

(Paolo Birreci)