Aldilà dell’immagine – Cinema Covid19

Adesso la bruttezza vera sta nel digitale, che ha ammazzato completamente il cinema perché la pellicola era fatta di chimica, di materia, imponeva una distanza rispetto all’immagine e a quello che sta al di là dell’immagine, una distanza necessaria, che il digitale ha completamente eliminato sottraendo al cinema la dimensione del mistero.

(Franco Maresco – Intervista per “Il manifesto”)

Maresco nell’intervista continua a parlare di come una certa idea di cinema sia ormai quasi del tutto scomparsa, un’idea dove il cinema era alchimia, stregoneria e dove adesso questo rituale è stato spezzato dall’immediatezza dello streaming, dal sovraffollamento delle immagini che riceviamo e produciamo.

Miller in Fury Road aumenta la velocità di alcune sequenze per esasperare il dinamismo del tutto.
Se Tom Hardy riesce con fatica a stare al passo, noi invece, culturalmente viviamo una situazione dove cavalchiamo già quei ritmi forsennati.
Riceviamo continuamente stimoli.
Sentiamo sempre più musica, ma partecipiamo meno ai concerti.
Guardiamo più serie tv e film, ma andiamo sempre meno in sala.
Scriviamo meno e postiamo più meme.
Siamo così saturi che forse queste immagini adesso racchiudono più senso della parola stessa.
Carne e fotogramma si connettono.
È tutto più reperibile, con l’immagine che abbandona lo schermo, suo corpo materiale, e proietta la sua luce addosso ai volti delle prime file cinefile di Bertolucci, mascherandoli del tutto.

L’uomo moderno (“Dillinger è morto” di Marco Ferreri – 1969)

Se prima lo schermo ci dominava, adesso siamo noi lo schermo da dominare, l’immagine distaccata dal corpo che attraverso l’etere viaggia tra spazio e tempo.
Ed è in questi giorni di quarantena, ancor più limitanti per questi fantasmi, che ci si rende conto che forse c’è un’idea di cinema morente.
Bisognerà rendersi conto della totale evoluzione che c’è stato in quel linguaggio diventato lingua, diventato parlato comune.

Come sarà il cinema post quarantena?

Un linguaggio totalmente nuovo fatto da fantasmi che riflettono sulla loro essenza e sulla loro memoria.
Una nuova onda dove si parla a suon di meme e di cui capostipite sono “Blob” e il fantasma per eccellenza di tutti questi anni, quel Jean Luc Godard autoesiliatosi in Svizzera che nonostante l’assenza di set continua a “filmare” il suo mondo.
Forse adesso si è veramente arrivati al nuovo punto zero dell’immagine dove la sperimentazione di “Verifica incerta” diventa attuale.

La produzione continua con desktop film e “opere da camera” che sfruttando la nuova forza del digitale possono prendersi spazio nelle vetrine di falsi festival online.

Se è vero come dice Maresco che il digitale ha sottratto la dimensione del mistero, è altrettanto giusto dire che forse di misteri da scoprire, per la generazione streaming ne sono rimasti ben pochi.
In un periodo dove le sale sono sempre più vuote, dove la serializzazione, i reemake e i reebot la fanno da padrone, come a testimoniare la totale saturazione di fotogrammi, c’è bisogno di reinventare il linguaggio e ridiscutere la fruizione dei prodotti.

Spielberg è stato uno dei tanti ad avvertire nel contemporaneo che qualcosa non stava più funzionando bene.
Con Ready Player One arriva una fortissima dichiarazione sul futuro dell’immagine, dove uno dei più grandi cineasti della storia del cinema esaurisce nell’arco di un singolo film tutto quell’immaginario pop che lui e i suoi colleghi hanno reso iconico per la nostra generazione, per poi invitarci a crearne uno nuovo.

E se l’immagine del futuro passasse proprio per quel VR di cui dispone il protagonista di Ready Player One?

Siamo la generazione del Lo Fi, del breve ritorno Vaporwave, siamo “Copia Conforme” di quel Daniel Johnston che non diventerà mai uno dei Beatles.
Il sottomarino giallo ha già suonato, ed è qui che il cinefilo per sentire sinfonie nuove non ha bisogno di nuove storie, può abbandonarsi alle copie, ma ha bisogno di nuovi suoni, di nuovi metodi di racconto.

Lo spettatore 2.0 si è costruito su serialità televisiva, cinema e videogame e ha quindi bisogno di interagire sempre più con le immagini che vede, trasformando l’esperienza prettamente visiva e auditiva in una esperienza totalizzante che riesca ad interagire anche con tutti gli altri sensi.
Dai Peep Show alle prime sperimentazioni 3D, dall’ Odorama di John Waters, che perfezionava lo Smell-O-Vision degli anni 60, ai grandi festival come Venezia e Cannes che si aprono alla Virtual Reality.
Il cinema sta sempre più andando verso l’immersività perché se prima si manteneva, citando nuovamente Maresco, “distanza dalla pellicola” adesso la sala ha perso così tanta autorità che lo spettatore si è ritrovato all’improvviso all’interno dello schermo.

Tolte le distanze da quarantena, è proprio in un mondo sfruttato come quello descritto da Spielberg che il digitale diventa fondamentale per distanziarci da una realtà scomoda e ributtarci alla ricerca di misteri nuovi, viaggiando nella memoria del cinema stesso.
Le sale rimarranno in piedi solo se modificheranno il loro statuto, solo se avranno coraggio di comprendere le grosse evoluzioni che ci stanno attraversando.
Dovranno aggiornarsi, aprendo ancor di più alle proiezioni evento e alle nuove tecnologie, oppure trasformare l’esperienza in sala in una sorta di esperienza museale, con cicli continui di visione e ripresentazione di classici.
Con gli eventi cinematografici fondamentali come luogo d’incontro e aggiornamento.
Dove cinefili, tra classici e nuove modalità di racconto, proiettano sui colleghi i ricordi di un cinema passato.

Archivi “bradburiani” dell’audiovisivo che proiettano e colorano sempre di più quei fantasmi in fila per l’ennesima anteprima di un film già visto.

(Carmelo Leonardi)