A Mosca Cieca – Romano Scavolini

Romano Scavolini, fratello del cineasta di genere Sauro Scavolini, ebbe una carriera prolificamente discontinua e indirizzata a tutta quella cinefilia hardcore destinata a rimanere sconosciuta ai più.

Immerso in un clima di continue trasformazioni politiche, sociali e culturali. A ventisei anni dirige la sua opera quasi certamente più riuscita, un film dal titolo subito provocatorio, estremo e sperimentale nel linguaggio, perverso e malato nelle tematiche che mette in mostra. Un film figlio della sua epoca, non tanto perché si avverte una contestualizzazione storica dentro la sua fragile trama, in verità messa da parte da uno straniamento e una confusione incessante che lo spettatore avverte consciamente, ma più che altro per il riflusso della Storia che anche se non dichiarata platealmente, assume un significato particolare. Sono gli anni che precedono i movimenti sessantottini, gli anni delle proteste giovanili con i sottofondo la musica dei Rolling Stones, gli anni dell’attivismo opposto ai governi e alle pratiche sociali conservatorie. Anni che travolgono l’arte nel suo insieme e in cui anche il cinema ne diventa importante testimonianza.

Ogni cinematografia nazionale sente un bisogno di (ri)scoprirsi, di rimodulare un cinema maturato industrialmente e produttivamente, che vuole definitivamente slegarsi da narrazioni circostanziate per diventare più libero e anarchico. Stagioni artistiche sotto il nome dell’innovazione che la storiografia mette in chiaro partendo dalla parola “New”. Abbiamo la nuova Hollywood, il nuovo cinema tedesco, la novà vlna cecoslovacca e altri movimenti di tendenza. Generazioni di cineasti indipendenti che hanno come nemico collettivo una censura invadente che costringe a tagli e ripensamenti di questi film, pena la mancata distribuzione.

A mosca cieca risultò vittima di una moltitudine di revisioni che lo portarono a essere un film impossibilitato a circolare liberamente tra le sale, fino a divenire disponibile in rassegne con il restauro compiuto dal cinema ritrovato nel 2017. Il film, costruito tecnicamente sulla sapiente lezione di Ombre di John Cassavetes, è un tripudio di personaggi paragonabili a delle schegge impazzite, trottole sconnesse tra di loro, che i movimenti di macchina sgrammaticati e una pasta fotografica sporca e sgranata ne fanno un film-saggio di quegli anni.

Si intravedono, sempre con una certa cautela nel mostrarli del tutto, gli spostamenti di un giovane su un territorio cittadino mai decifrabile nella completa interezza. Probabilmente si tratta di Roma con la sua impressionante confusione di masse che si muovono, sguardi in rotta di collisione e impreviste avventure sentimentali.

Come quella che sembra vivere quest’uomo che l’occhio della cinepresa, proprio come uno stalker morboso, scruta attentamente con attenzione maniacale nei dettagli. Ne segue i gesti, la sigaretta nella bocca, le mani callose, il modo con cui maneggia una pistola, l’oggetto del desiderio trovato per caso. Le traiettorie registiche non sono linee rettilinee, assomigliano più a dei segmenti che formano un puzzle pregno di angoscia visiva. Addirittura il film non lesina alcuni complessi movimenti della macchina a spalla che ripete azioni già compiute, non è più possibile stabilire precise coordinate, si presuppone invece un collasso spazio-temporale della realtà.

Una coesione del formato in sintonia con il violento episodio, perché di episodio si parla, con cui il nostro personaggio si farà artefice nella sognata carneficina finale.

(Paolo Birreci)