Vive L’amour – Tsai Ming-Liang

Vive L’amour racconta il contraddittorio rapporto tra il giovane Hsiao-Kang, il venditore abusivo Ah-Jung e l’affascinante ma non più giovane May-Lin.

Ciò che si evince quasi immediatamente dall’opera è la volontà di mostrare, coerentemente con i presupposti del film precedente “I Ribelli del Dio Neon” la solitudine ed il disagio interiore dei personaggi che consumano le vicende.
Hsiao-Kang vende urne cinerarie e non ha una fissa dimora. Approfittando della distrazione del vecchio proprietario di un appartamento ruba la chiave e, di nascosto, vi entra.
May Lin è un agente immobiliare, e sta cercando di vendere proprio l’appartamento nel quale si è infiltrato il giovane ragazzo.
Ah-Jung, venditore abusivo di tappeti, conoscerà casualmente la bellissima donna, e una volta consumato con essa un rapporto sessuale, ruberà dalla sua borsa la chiave della proprietà, costringendola a recuperarne un’altra dall’agenzia nella quale lavora.

Ciò che il film ci mostra, in sostanza, è un Ménage a trois letteralmente irragionevole : i protagonisti, infatti, pur accedendo costantemente all’appartamento, non si incontreranno (quasi) mai.
Concettualmente, Vive L’amour rappresenta l’inattuabilità del manifestarsi in quanto individui, l’impossibilità del processo comunicativo, che era anche l’assunto di base del precedente I Ribelli del Dio Neon.
Tuttavia, rispetto al film del 1992, Tsai Ming-Liang lavora sulla messa in scena in maniera ancora più rigorosa, ed estremizza il lavoro teorico sul montaggio, sradicando ogni eventuale convenzionalità linguistica. Le conclusioni a cui giunge la sua seconda opera sono così decisive, da rappresentare un modello significativo per tutto quanto il suo cinema successivo.

Le inquadrature fisse si fanno ancora più lunghe, i dialoghi risultano quasi inesistenti e la narrazione si sfalda completamente.
Non vi è una logica di azione e reazione, ne tantomeno particolari raccordi che colleghino gesti o strutturino logicamente i movimenti dei personaggi in scena, ma sono i campi lunghi piuttosto ad illustrare l’impossibilità comunicativa dei personaggi e la loro alienazione.

Quando li ritroviamo soli, infatti, le esasperanti costruzioni simmetriche, coadiuvate da una profondità di campo quasi sempre aperta che rende gli spazi ancora più febbrili, li rinchiudono in prigioni formali dalle quali sembra non riescano a fuggire.
Quando invece si ritrovano contemporaneamente all’interno di un’unica inquadratura, la puntigliosa suddivisione spaziale e il particolare rapporto campo/fuori campo gli impediscono di vedersi.

In Vive L’amour la composizione dell’immagine è significativa : i personaggi sono pervasi da una profonda solitudine interiore, una malinconia emotiva di cui le esasperanti prospettive si fanno metafora
Sopra : Hsiao-Kang bacia Ah-Jung, il quale non può vederlo perché dormiente.
Sotto : Hsiao-Kang sgattaiola fuori dal letto. May-Lin, addormentata, non se ne accorge. Questo rapporto paradossale e ironico, nel quale personaggi racchiusi nella stessa inquadratura non riescono a comunicare, è uno dei cardini di tutta la poetica di Tsai Ming-Liang, il quale vede le relazioni interpersonali come realtà estremamente complesse

Tsai Ming-Liang quindi non racconta, ma mostra. La profonda solitudine dei personaggi e la loro indolenza fanno parte di un costrutto che si modella in maniera sostanziale sulla totalità dell’immagine filmica. Vi è infatti un completo abbandono dei compromessi di linguaggio a favore dell’accoglimento della natura audiovisiva del mezzo cinema, fatto di colori, di suoni, di luci, di ombre, di spazi e di oggetti. Ed è proprio a partire da questi elementi primari che si palesa d’innanzi agli occhi dello spettatore l’isolamento interiore dei personaggi, impossibilitati ad esprimere i loro veri sentimenti (May-Lin non riuscirà a manifestare il suo amore per Ah-Jung, proprio come non lo farà Hsiao-Kang).

Essi sembrano posseduti da un ingenito soggettivismo che gli impedisce di colmare i propri vuoti, una condizione che Tsai ci mostra attraverso uno straordinario lavoro di astrazione formale.
Da una parte le inquadrature non sono mai “riempite” completamente, ma vengono private di qualsiasi elemento compositivo in eccesso, dall’altra vi è un ribaltamento di segni: le azioni dei personaggi vengono private del loro senso originario.

I personaggi sono sempre decentrati e portati ai lati dell’inquadratura (décadrage). Questa scelta compositiva si fa metafora delle loro mancanze interne
Bere l’acqua, immergersi nella vasca, distendersi sul letto. Attraverso la reiterazione del gesto, i personaggi del film sembrano voler cercare un sollievo che in realtà non giungerà mai

Laddove molta critica accusa Tsai Ming-Liang (non di rado) di puro manierismo nasce probabilmente uno dei maggiori fraintendimenti del suo cinema, ovvero la freddezza generale e la mancanza di emozioni.
In realtà il meticoloso lavoro di messa in scena ed il significativo rapporto tra filmico e profilmico, se osservati con grande attenzione, sono l’espressione evidente di un profondo studio delle emozioni.
Le varie suggestioni emotive del film scaturiscono, infatti, proprio dall’estrema geometrizzazione e bizzarria delle
immagini. È la scelta di ripresa, insieme alla lunga durata delle inquadrature, a creare così l’emozione. Più a lungo un’inquadratura permetterà di essere osservata, più intenso sarà il processo di assimilazione da parte dello spettatore.

Se da un lato quindi la strutturazione delle immagini è, come espresso nelle righe precedenti, il modo principale per spremere la solitudine e la frustrazione interiore dei personaggi, dall’altro, a riprova del fatto che Tsai non esibisce un’estetica fine a se stessa, il suo cinema è luogo di segni e simulacri.
È il caso delle sigarette fumate incessantemente, dell’acqua bevuta per cercare di avere un breve sollievo, del letto come luogo di solitudine e raccoglimento interiore, del rumore dei passi che, rimbombando, accentuano la vuotezza degli spazi, o anche degli esterni grigi e desolati.

Riguardo quest’ultimo punto, in particolare, è esemplificativo parlare della penultima sequenza del film, quella che vede May-Lin attraversare un parco nel bel mezzo di Taipei.
Tutto si sviluppa attraverso due movimenti principali, il primo motivato (una carrellata laterale che segue la donna) e il secondo immotivato (a un certo punto la mdp si ferma ed esegue un’ampia panoramica sul parco).
La funzione della sequenza è quella di collegare, attraverso riferimenti simbolici (la desolazione generale, i colori spenti, l’assenza di persone) la condizione del parco a quella interiore di May-Lin, che per un breve lasso di tempo sparisce dall’inquadratura per poi ritornarvici in un momento successivo.

L’inquadratura finale del film è un close-up di 6 minuti sul volto della donna che, in preda alla disperazione, si lascia cadere in un pianto straziante: il processo d’immedesimazione emotiva raggiunge il suo culmine, lo spettatore non può fare altro che subire la dolorosissima scena.

Vive L’amour, quindi, non rappresenta soltanto il logos del successivo cinema di Tsai Ming-Liang (che esploderà definitivamente con opere quali I don’t want to sleep alone, 2006 e, specialmente, Stray Dogs, 2013) ma è anche l’esempio perfetto della visione che egli ha delle relazioni umane, intese come amicizia e, specialmente, amore.

“I miei film trattano le relazioni umane come fossero degli esperimenti, non c’è una vera conclusione, sono sempre esperimenti realizzati partendo da delle distanze.
All’inizio rendo queste distanze molto grandi, ed è da lì che comincio a sperimentare”.¹

(Gabriele Plutino)

Note

*¹ Interviewed by La Frances Hui, Asia Society