FEFF22 – Labyrinth of cinema – Nobuhiko Obayashi – (2019)

La chiusura di un cerchio, il testamento artistico del cineasta deceduto lo scorso 10 aprile approda al far east come uno dei titoli dal maggior impatto mediatico. Obayashi alimenta un flusso lungo 180 minuti iniziando da una sala, locus amoenus, costruttrice di icone e miti eterni, capsula da viaggio che attraversa la storia dell’umanità. Ed è proprio la missione di questo labirinto del cinema che si sviluppa tramite l’iconografia storica giapponese, percorrendo passo dopo passo, dal Giappone feudale a Hiroshima, le radici di un popolo. L’inarrestabile calderone di immagini, colori iper accesi, pesci che svolazzano, rotture della quarta parete e la corrosione delle regole grammaticali del linguaggio cinematografico, che insinua la capacità di raffigurare il rigore storico di una nazione con un filtro che può arrivare a tutti.

Per Obayashi il potere della finzione è tale da rendere il dramma del bombardamento atomico qualcosa da rivalutare, e la violenza del Giappone antico divertente da vedere. Presta la sua attenzione non tanto nei fatti storici, scoordinati e quasi fortuiti, ma nelle dinamiche di un trittico di amici e una donna angelo, una Beatrice dantesca che accompagna questi giovani strampalati. La tradizione storica rimane a scanso di equivoci un tassello importante da rispettare, i riferimenti ai riti del Giappone e ai grandi eventi bellicosi del novecento sono intatti. Il vero punto di forza sta nella modalità con cui vengono percepiti, non come una noiosa successione in stile saggio storico, ma prestati al servizio dell’illusione cinematografica.

Come gli ultimi film di Tarantino, Obayashi crede nel cinema come ancora di salvezza, quindi destruttura la grande storia spezzandola dai suoi connotati seriosi. Come una fiaba da far tramandare a dei cantastorie, piromanti, illusionisti che lavorano la pellicola come degli alchimisti.

È la magia del cinema, magia nel senso letterale del significato, con il proiezionista che consente, proprio come farebbe un mago, o almeno il film lo caratterizza in questo modo, il movimento delle immagini che appaiono su un grande schermo. La demistificazione è tale anche nel momento in cui si approccia alla forma adeguata su un set altrettanto fantasioso, modulato secondo le regole del green screen, differenziando platealmente la profondità di campo e gli ambienti in cui recitano gli attori. Un visionario set futuristico che non conosce regole, pieno di sovraimpressioni e didascalie godardiane, con un montaggio ipercinetico senza limiti a cui è tutto permesso. Post-modernità allo stato puro. La finzione che non si nasconde dietro patine dalle ambizioni realistiche, ma che invece viene sfruttata rispettando la sua predisposizione per l’irrealtà.

Il canto del cigno di un grande autore.

(Paolo Birreci)