La nuova carne: Brandon Cronenberg

Nel periodo di quarantena forzata gli schermi sono diventati i nostri occhi su un mondo sempre più allo sbando.

Netflix, Prime Video, tutti i canali streaming hanno incrementato moltissimo gli accessi; come a confermare che in tutta quella distanza l’unico rapporto intimo è con le immagini.

Forse il virus più grande è proprio quello che ha contagiato i nostri schermi. Quello che ha portato alla creazione della videoteca di MUBI, quello che ha portato Fuori Orario su RaiPlay.
Un virus culturale che passa di casa in casa; in fin dei conti è sempre stata questa la lezione di David Cronenberg, che creava immagini bisognose di corpi, pronte ad attirare eroticamente la propria preda e uniformarsi con essa.
Cellule tumorali pronte ad attaccare aggressivamente quei contenitori vuoti che mai più sarebbero rimasti gli stessi.


Mentre il dolore veniva falsamente esorcizzato con gli spettacoli proveniente dai balconi di tutt’Italia, un dolore interiore veniva privatizzato nella propria stanzetta con immagini silenziose che nutrivano la nostra vista, ma allo stesso tempo ci portavano a prendere coscienza della disastrosa situazione dell’esterno.

Le bellissime immagini della messa di Papa Francesco durante la quarantena che testimoniano la gravità storica del momento.

Durante la quarantena uno dei film più visti in assoluto è stato Contagion di Soderbergh, testimonianza del comportamento quasi masochistico di una comunità che vuole intrattenersi e che vuole mantenere comunque uno sguardo vigile sul presente.

Siamo tutti stati infetti (chi da Soderbergh, chi da Cronenberg).
Coscienti del baratro siamo rimasti aggrappati a quelle visioni come se fossero l’unico modo per toccarci l’uno con l’altro; l’unico modo per stare a contatto in un periodo fatto di distanze e restrizioni.
È stato proprio quando abbiamo preso coscienza della situazione che lo schermo si è trasformato nel cartellone politico di Charles Foster Kane.
Lo schermo ci ha sovrastato e come degli eroinomani abbiamo continuato ad aver bisogno delle sue immagini.

Sembra che Cronenberg non sia mai stato così vivo come ora.
Quasi anticipando il Covid-19, allora ecco che spunta il figlioletto regista, Brandon.

Nel 2012, alla 65esima edizione del Festival di Cannes, viene presentato Antiviral.

Opera d’esordio del figlio del maestro del body horror, che sembra una piccola escrescenza corporea proveniente dagli stessi mari già solcati da opere come Videodrome e Maps to the stars.

Caleb Landry Jones in Antiviral

Antiviral si setta in un mondo futuristico dove c’è un’incontrollabile santificazione delle celebrità; e dove cliniche specializzate possono iniettare ai fan le malattie contratte dalle loro star preferite.
Syd March, interpretato da Caleb Landry Jones, lavora alla Lucas Clinic.
Di tanto in tanto elude il sistema di sorveglianza, utilizzando lo stratagemma di contrarre lui stesso la malattia, per far uscire fuori dall’istituto i virus e venderli al mercato nero.
Qualcosa andrà storto e lì inizierà la corsa contro il tempo tra allucinazioni e deperimento fisico.

Uno dei grossissimi punti di forza del film è proprio il suo protagonista che sorregge sulle spalle sempre incurvate e sul volto scavato le sorti di una narrazione che sa di già visto.
L’esplorazioni in ambiente fantascientifico e horrorifico fatte dal padre sono così tanto profonde che forse è davvero difficile al giorno d’oggi parlare di decadenza culturale e deperimento fisico senza pensare al maestro del body horror.
Le probabilità che Brandon divenisse una banale macchietta del padre c’erano tutte, ma pur non riuscendo a smarcarsi dall’arte paterna, Antiviral sembra esserene un’ottima continuazione poetica, di cui il regista esordiente riesce a gestire bene stilisticamente la messa in scena.
Campi larghi, camere fisse e inquadrature perfettamente composte.
I personaggi di Antiviral altro non sono che piccole macchie nere incastrate nelle sue cornici bianche.
Massa di zombie che cerca il contatto, anche se mortale, col divino.

  • Antiviral, Brandon Cronenberg (2012)
  • Videodrome, David Cronenberg (1983)

In Maps to the stars, una delle opere più sottovalutate del padre, la narrazione si basava sul raccontare la decadenza hollywoodiana e sullo smitizzare quegli involucri vuoti afflitti da nevrosi e ossessioni; con la mente pronta a sgretolarsi ancor prima dei corpi, in un processo quasi inverso rispetto a quello dei suoi primissimi film.

Soprattutto nell’ultima parte di carriera, tutto ciò che si contorce fino alla distruzione non è solo il corpo, ma tutto ciò che c’è intorno.
È un idea che va a morire; è il corpo che perde assolutamente di significato e che può essere sacrificato.
Diventa solo un mezzo per arrivare alla mente.
Un contatto, sporco di sangue, per arrivare ad un divino fasullo che Cronenberg padre ci mostrava sulla tavoletta del bagno.

Julianne Moore in Maps to the Stars

Tutti i corpi perfetti delle celebrità sono illusioni fantasmatiche.
Quasi mai presenti in scena, se non tramite degli schermi, diventano fonte di nutrimento per i banchetti di quella società dello spettacolo che coltiva nei giardini di casa le loro cellule.
Le tavole vengono imbandite di bistecche di vip trasformate in eucarestia; per qualche minuto viene a crearsi un contatto, pur se illusorio, tra l’alto e il basso.

Tutto ciò non è tanto diverso dalla deriva che stanno prendendo i social.
Schermi freddi che creano l’illusione del contatto e il continuo scrolling per sentirci partecipi di pochi secondi della vita privata di quelle figure che tendiamo a prendere come modelli d’ispirazione.

La malattia di Antiviral è quel privato che dura 15 secondi su Instagram; qualche volta falso e qualche volta no, ma nell’appiattimento quotidiano dove tutto è uguale a ciò che è diverso, noi non ce ne accorgiamo.

Fyre, documentario uscito qualche anno fa su Netflix, è centrale per quanto riguarda il discorso sui social e la falsità del contemporaneo.

Syd diventa un sabotatore dell’appiattimento culturale nel momento in cui, senza volerlo, esce dagli schemi cercando una cura ad un sistema che l’ha reso vittima.

Lui conosce la verità e cerca di smascherare col suo stesso sangue le gigantografie che coprono la città, dissacrando l’immagine stessa sporcandola.
Sacrifica il suo stesso corpo per combattere l’iconodulia come Warhol con il panino o con la serializzazione di Marilyn Monroe.

L’arte di Brandon Cronenberg è un cosmo dove si esaurisce l’esistenza fisica dell’essere umano per lasciare spazio ad un feticcio vuoto e finto.

I corpi del suo cinema sono corpi che smettono di disintegrarsi e che perdono la propria identità a favore di una digitalizzazione fantasma dove tutti si infettano tra di loro a testimonianza di un asserimento al consumismo che dimostra la poca personalità degli esseri che abitano gli spazi del contemporaneo.

Una poetica indubbiamente figlia del progetto filmico del padre, e da cui Brandon in futuro deve esser bravo a distaccarsi più facilmente, che ritorna anche nel suo secondo lungometraggio, Possessor.

Presentato al Sundance Film Festival e di cui ancora non si sa una data ufficiale d’uscita, Possessor torna sulle stesse tematiche del suo precedente lavoro.

Tasya Vos è un’agente che, tramite una strana tecnologia, si intrufola dentro il corpo e le vite di altre persone per assassinare personaggi d’alto lignaggio che potrebbero ostacolare l’operato della compagnia per cui lavora.
Ma questo è un gioco che a lungo andare comprometterà le sorti della sua esistenza psico-fisica, modificando in maniera irreversibile la sua stessa vita.

Possessor, Brandon Cronenberg (2020)

Uno schema di vasi comunicanti dove il sangue e il dolore diventano comunitari e dove il corpo diventa mero oggetto d’attraversamento.
L’ennesimo contenitore vuoto, l’ennesima maschera che cerca di coprire le enormi falle presenti nel sistema.

In L’anno scorso a Marienbad, capolavoro di Alain Resnais, c’è una sequenza con protagoniste le statue dove i protagonisti, in sottofondo, discutono sul significato di quelle statue.
Il significato viene continuamente mutato a seconda di chi guarda e a seconda di chi ricorda; testimoniando il limite dello sguardo umano e della materia stessa.

Il corpo è un oggetto immobile pronto ad esser sacrificato verso un pensiero che invece continua a scorrere e a modificarsi.

Lo stesso Possessor sembra partire da questo concetto, con la protagonista che di volta in volta confonde i ricordi quando deve apprestarsi a fare i test per confermare la propria sanità.
Oggetti che testimoniano la sua esistenza in quanto appartenenti al suo passato storico.

È da questo passaggio che scaturisce l’orrore più che da tutto il resto.
Sul rifiuto della memoria, sul mancato ritrovo di veridicità nella storia si comprende l’impossibilità del vero e così si mette in scena il mistero dell’umanità stessa.

Sono questi i passaggi di un’opera che per quanto ancora giovane e acerba mostrano a tutti il talento di un nuovissimo autore come Brandon Cronenberg; che in entrambi i film parecchie volte va a perdersi nei meandri di una mania del controllo e di uno strutturalismo ad incastri degni del peggior Nolan che divertono, ma che sporcano l’opera creando un pastiche filmico troppo smaccatamente figlio di un filone di film fantascientifici che ha come figura portante proprio suo padre.


(Carmelo Leonardi)