La Vita di Adele – il nuovo verbo del cinema

François Truffaut una volta disse: “una persona si forma tra i sette e i sedici anni, poi vivrà tutta la vita con ciò che ha acquisito in queste due età”.

Come per la sua “saga”, anche quella di Kechiche è una storia di iniziazione all’età adulta.

Ad aprire il capitolo 1 è una comune giornata di scuola. Adele (Adèle Exarchopoulos) esce di casa, quasi di corsa, per prendere un pullman. Durante il tragitto recupera minuti di sonno arretrato dalla notte precedente. Ha uno sguardo che sembra eternamente assente, seppur denso di un forte carisma che attende solo di essere rivelato. Ci ritroviamo fra i banchi di scuola, all’interno di una lezione di letteratura, dove la mano di Kechiche comincia a soffermarsi su dei primi piani strettissimi, loquaci, accesi. Dagli sguardi degli alunni è possibile da subito ritrovare un’atmosfera scolastica tipica di quell’età, fra distrazioni, intese comuni, risate e noia. La mano di Kechiche non solo accende l’immagine, la rende viva. Risulta impossibile distaccarsi dalla potenza nostalgica che attraversa la camera, mentre si sposta da un volto all’altro. Il confine dell’esperienza spettatoriale diventa labile, e non possiamo che sentirci partecipi alle dinamiche che vengono portate in scena.

Non seguiamo solo Adele, le stiamo accanto. Vediamo sin da subito quanto sia affamata di vita, e quanto questo la porti ad avere fretta su tutto. Non le mancano gli amici, non le manca una famiglia ed è soprattutto figlia del suo stesso fervore giovanile. All’apparenza risulta una ragazza mite, che si accontenta delle solite situazioni di una vita comune. Ma non saranno le attenzioni di un ragazzo a farla sentire appagata e con un posto preciso nel mondo. Tanto che un giorno, mentre si presenta a un suo appuntamento, nell’attraversare la strada incrocia per la prima volta lo sguardo di Emma (Léa Seydoux). A un primo impatto questo la disorienta, facendola sentire spaesata e confusa. Quella stessa notte scopre dentro di sé un impulso fino ad allora represso, che cerca di domare, credendo di riuscire così a sopprimerlo.

La dimensione in cui ci inserisce Kechiche è quella degli ultimi anni liceali, dove non si è ancora abbastanza grandi, ne abbastanza maturi. Per questo Adele non riceve un riscontro amichevole e comprensivo da parte delle sue compagnie abituali. Questo la porta a sentirsi sempre più sola (“a far finta di tutto”), più sola in un mondo che ha appena scoperto.

Non può che accettare di inseguire la propria strada. E’ un suo amico, passatoci prima di lei, a indicarle quale. Giunta in un locale gay-lesbico comincia a scoprire una propria pace, a non sentirsi discriminata ed estranea a sé stessa, raggiungendo un lento ma rassicurante equilibrio. Superata la violenza dell’impatto a questa realtà, è lei stessa che inizia ad accettarsi.

“La vita è strana, bisogna cogliere i momenti. Non bisogna pensare agli altri, se ne fregano. Vivi la tua vita, se ti senti dentro qualcosa, vivitelo e basta.”

Sono queste parole a condurla inconsciamente verso Emma. La loro intesa, seppur ingranando con una volontà precisa, arriva in maniera istantanea. Le immagini dei loro volti vivono di una propria autenticità, la naturalezza dei dialoghi è resa così aperta e spontanea, tanto che ogni attimo, ogni pausa, ogni tempo morto, risultano tangibili.

Ci si abbandona a questa forma di cinema, che si estende al di fuori dello schermo e diventa reale. Da questo momento si vive assieme ogni loro singolo passaggio narrativo, in ogni sua intensità, lasciandosi trasportare in ogni suo contesto, perché mentre scorrono sullo schermo, questi momenti sembrano vivere di una vita propria, che si estende oltre il confine stesso di una narrazione cinematografica.

A seguito del suo incontro con Emma, Adele ritrova una propria consapevolezza, una forma di libertà per sé stessa. Sente vicina la meta più importante per ogni adolescente: essere e sentirsi accettati per quello che si è (“Mi somiglia e contemporaneamente non mi somiglia.”)

Di conseguenza si trova ad affrontare uno scontro definitivo con le sue compagne, che a seguito di questo evento la opprimono sia verbalmente che fisicamente, ossessionate dalla ricerca di spiegazioni, al punto da respingerla ed emarginarla. (“Quanti anni hai?” – “Quelli che avete voi.”)

In tutto questo il ruolo dei suoi genitori è forse il più estraneo, essendo composto da due figure dedite ai ritmi e alle concezioni più convenzionali. Ragion per cui Adele non sente l’esigenza di rivelare le proprie inclinazioni.

Ad ogni modo, Adele sente di aver raggiunto una totale conoscenza della propria persona, che ha modo di liberare in lungo amplesso che la vede coinvolta con Emma, capace di tirar fuori tutta la loro passionalità, avulsa da ogni tipo di vincolo. Soprattutto per Adele, che si ritrova piacevolmente smarrita nella sempre più convinta consapevolezza di sé.

Se prima era affamata di vita, ora Adele ne è anche innamorata.

“L’unico vizio dell’acqua è avere un peso. E’ un vizio intrinseco dell’acqua, da assecondare.”

Siamo vicini al capitolo 2 della sua storia. Adele compie gli anni, circondata dagli unici amici che l’hanno accettata. A introdursi nella sua vita sono le amicizie di Emma, verso le quali non riesce a trovare un punto di contatto, a causa delle loro ambizioni intellettuali, sentendosi nuovamente estranea, mentre le si presenta ormai prossima l’età adulta. Rispetto ad Emma, a lei piacerebbe vivere di cose semplici e quotidiane, senza ambire a qualcosa di particolarmente elevato. Non a caso decide di intraprendere la carriera di docente presso una scuola elementare. Un momento di apparente svolta, dove iniziano a rivelarsi le sue mancanze e una ricerca disperata di affetto e attenzione. In aggiunta a quella di un ruolo concreto e permanente che risponda alle aspettative sociali, come l’esigenza di avere un figlio. Scopre una Emma più decisa a perseguire una strada più definita, in contrasto con la sua scelta di continuare a preferire una vita comune e più accomodante.

Questa assenza di ambizioni comuni inizia a mostrare il fianco, portando un’inevitabile allontanamento fra le due ragazze, ormai donne. Mentre Emma continua caparbia per la propria strada, vien fuori la quasi totale incapacità e impreparazione di Adele nell’affrontare la razionalità e l’ipocrisia della vita adulta. Al punto che non sa più in che mondo rifugiarsi, e continua a vagare persa senza inseguire una reale meta, cominciando ad affrontare la propria disillusione. Tanto da arrivare a tradire la stessa Emma pur di risentirla vicina come un tempo.

Ritorna nei luoghi dove si sentiva felice assieme a lei, dove si sentiva viva e riusciva a riconoscersi. Luoghi ormai tenuti in vita solo tramite la forza del suo ricordo, dove continua a rifugiarcisi. Il loro passato, nell’intensità della sua breve durata, si rivela ormai lontano, tanto che risulta difficile credere che sia mai esistito.

Quando Emma e Adele si ritrovano dopo tanto tempo, si ritrovano in due ad essere diventate adulte, e nel momento in cui si presenta un ultimo tentativo disperato di ricongiungersi, scoprono che da quella pulsione ormai morta non rimane altro che tanta tenerezza.

Le ambizioni giovanile sono ormai posate. La prevedibilità della vita adulta incombe, ma in tutto questo Adele è completa. Il segno di Emma, il blu, ora le è addosso. E sembra quasi suggerito dallo stesso Kechiche che chiude l’ultima sequenza con la stessa musica che aveva inserito nel loro primo scambio di sguardi. Ora però Adele ha una personalità definita e può percorrere un percorso più autonomo. La sua esperienza con Emma l’ha inevitabilmente plasmata. Ora è tutto più nitido e conciso, seppur privo di ogni tipo di trasporto. E’ la sua vita da adulta che prosegue.

Siamo ormai alla soglia delle 3 ore, ma la vita va avanti. Quella di Adele, che in questa storia abbiamo sentito addosso. Perché la potenza del cinema di Kechiche, come dimostrerà e consacrerà nel successivo Mektoub My Love, sta proprio nella capacità di infondere naturalezza e spontaneità alle sue immagini, dove la regia diviene invisibile, e tutto acquisisce una vita propria. E’ il nuovo verbo del cinema.

(Ricki Loglisci)