The Lodge – Ascensioni mancate

Nel 1982, con The Thing, Carpenter metteva in scena un horror che ribaltava la visione di Hawks e Nyby.
La pellicola “originale” era ambientata al polo nord e metteva in mostra americani ancora coscienti di chi fosse il nemico.
Carpenter invece traslava il tutto verso il polo sud, dove vigono altre regole, dove il nemico continuamente muta forma ed è impercettibile.



Se Hawks e Nyby evocavano la paura della guerra fredda (d’altronde erano gli anni del Maccartismo), Carpenter invece ragionava sull’ambiguità, instillava il dubbio.
Non ci sono alleati né nemici certi da combattere, tutti si possono trasformare nel mostro in un’America che fino a pochi anni prima era stata al nostro fianco a sparare all’invasore e poi ha deciso di invadere e colpire col Napalm l’epidermide di quelli che reputava mostri senza accorgersi che la minaccia è sempre stata interna.

Carpenter è stato uno che ha sempre ragionato sull’ambiguità, sull’allargare le sue narrazione ad universi più ampi utilizzando con sapienza hitchcockiana il fuori campo.
Ha sciacquato i panni nell’Arno e ha adattato i suoi discorsi sociali e politici al linguaggio orrorifico dove la minaccia viene dall’interno della comunità.


Siamo noi stessi forse che creiamo i mostri che poi ci ritroviamo nel vialetto di casa mascherati da Michael Myers.

Non è un caso che in The Lodge (secondo film dell’accoppiata Franz – Fiala) si veda di continuo nella tv, chiusa in uno smorto chalet che ricorda la condizione di reclusione dei personaggi di Carpenter, il The Thing del regista americano.

Già in Goodnight Mommy i due registi giocavano con l’ambiguità, cambiando continuamente la visione dello spettatore.
Giocando sull’incastro senza mai tradire l’atto di fede instaurato con chi vedeva il delirio dei gemellini austriaci incapaci di riconoscere la madre.

Goodnight Mommy, di Veronika Franz e Severin Fiala (2014)

Nel loro esordio, lo spettatore si trovava davanti la difficile scelta di credere nei deliri dei bambini o nel volto fasciato della madre.
Lontano dallo spazio e dal tempo, senza punti di riferimento, lo spettatore si trovava nella situazione di dover scegliere chi fosse il reale mostro.
È un’entità che come Regan MacNeil si accartoccia su se stessa, cambia forma, passa di corpo in corpo e ci fa sospettare prima di un personaggio e poi di un altro.

Chi è il colpevole?

In un epoca dove si lavora molto di più sul non detto, sul medium videoludico, sulle narrazioni interattive, l’atto di fede verso il mezzo cinematografico deve essere ancora più forte, si torna verso Friedkin.


Credere o non credere?

L’utilizzo dei segni e dei simboli riescono a riportare alla mente le paure ataviche dell’uomo moderno che non ha più fede, ha paura del passato e dell’impossibilità di redimersi, ha paura della solitudine (forse è questo ciò che fa esplodere il dramma di The Lodge).

La sequenza delle scale nel film di Friedkin mostra la fede che muore o è la fede che nonostante tutto riesce ad essere unica ancora di salvataggio di una società che non crede più e che, spinta dal male, è in caduta libera?

L’esorcista, di William Friedkin (1973)

In The Lodge invece si deve aver fede nella visione.
Bisogna perdersi per ritrovarsi, resistere.
L’unico modo per rinascere è questo, tenere gli occhi ben aperti e cercare sempre maggiori indizi sui mostri che ci circondano.
Forse, però, in un mondo che ha perso la “vera fede” è più facile spegnere il televisore, uscire dalla sala prima dei titoli di coda, mettere la benda sugli occhi dei peccatori e spegnersi per sempre.

L’atto finale di Grace Marshall è un sacrificio che serve per liberarsi dal mondo in caduta libera di Friedkin, dove le giornate grigie della famigliola di The Lodge si ripetono in un inquietante loop orrorifico, ma è anche la scelta di censurare il male, di non volerlo riconoscerlo perché i demoni interiori sono più forti e ci assalgono, e l’uomo moderno ha paura di perdersi, di affrontare se stesso, quindi preferisce anestetizzarsi al dolore.
È la scelta più facile quella di scegliere di non decidere, di non vedere e di non riconoscersi allo specchio cercando di curare piano piano tutti i difetti.

Bisogna invece avere fede nel buio, bisogna credere nella perdizione per non rimanere bambolotti freddi e immobili in una casetta di legno incapaci a prendere il volo.

Reale e incubo si fondono in un tutt’uno.
L’essere umano, privato di tutte le sue certezze, si trova a scontrarsi contro mostri che ha sempre preso sotto gamba, come quelli rimossi dalla cura, e che una volta rievocati fuori ci mostrano come il nemico sia sempre stato intorno a noi e come fosse impossibile liberarsene (guardate l’esordio di Holness, Possum).

Possum, di Matthew Holness (2018)


Ci rimane solo la ricerca disperata, a volte anche in maniera violenta, dell’espiazione dei nostri peccati mentre il nostro mondo si sgretola davanti ad i nostri occhi.

Il nuovo film dell’accoppiata mostra già dai primi minuti una malattia che gravita intorno al tutto e che ha bisogno di quell’aspirina che piano piano si sfalda, diventa invisibile, ma rimane nell’aria, nell’acqua, sempre presente.

C’è un male che risiede all’interno dei corpi che aspetta solo di esplodere appena gli viene data la possibilità di “prendere la luce”.
Un male che diventa peso che ci trasciniamo dal nostro passato e che non ci permette di spiccare il volo come la bambola legata ai palloncini che mai si guadagnerà l’alto dei cieli.
È impossibile arrivare al paradiso se prima non affrontiamo, chiusi in un ascensore, le bestie feroci.

Nel più alto dei cieli, di Silvano Agosti (1977)


Si gioca sull’andare fuori dagli schemi con i limiti della realtà e credibilità, è una macchina titanica che attraversa l’oggetto e osserva fin dentro i suoi spazi più angusti e oscuri.

La materia trascende ed è l’oggetto inanimato, il pupazzo, la riproduzione della casa, che acquista il maggior senso all’interno della narrazione.
Diventa morte spirituale in un macrocosmo che non rispetta regole terrene e dove il più grosso peccato è decidere di vedere.
Bisognerebbe invece sacrificare la memoria, curare il passato con la fede decidendo di non affrontare il diavolo, ma aggirando il problema con il sacrificio della visione e con le medicine.

Franz e Fiala chiedono al proprio spettatore di scardinare qualsiasi tipo di immaginario imposto, credere nell’impossibilità di riconoscere e avere fede in qualcosa di assolutamente più grande di qualsiasi bella storia, credere nel viaggio tra piani reali e irreali dove non si capisce più se quello che stiamo vedendo sullo schermo sia il reale chalet o le parti della sua riproduzione giocattolo.

Atto di fedeltà estremo verso il cinema, partendo dalla tangibilità della materia, per in quel concreto trovare quel superman punch shyamaliano che trasforma l’uomo in divinità che stringe tra le sue nocche il proprio destino.

Bisogna perdersi dentro lo chalet per ritrovare noi stessi, ma forse si è persa la fede nella visione.

(Carmelo Leonardi)