Berlinale70: Volevo Nascondermi – Giorgio Diritti

Tra gli innumerevoli autori italiani presenti quest’anno alla berlinale, risulta nel concorso ufficiale il nome di Giorgio Diritti, tornato dietro la macchina da presa a otto anni di distanza da “Un giorno devi andare”, deciso a raccontare, più o meno interamente, la parabola di vita del pittore Antonio Ligabue.

Diritti affida l’arduo compito di impersonificare l’artista italiano al talento di Elio Germano, qui in una prova fisicamente impegnativa che sfocia in una degradazione assoluta del già grottesco corpo di Ligabue. L’irriconoscibile attore romano si fa carico delle umiliazioni, delle incomprensioni e delle problematiche fisiche derivative da un contesto razzista e circoscritto, dietro l’ombra incombente della storia italiana del primo novecento.

Il film si poggia con morbosa curiosità sui deliri psicofisici dell’artista, lavorando sulle soggettive/oggettive di Ligabue e aiutandosi con la voglia di nascondersi, come ci rammenta il titolo, dal resto della popolazione: ecco quindi inquadrature da spioncini o all’interno di una grande sacca nera dove è rinchiuso l’animalesco corpo dello scultore.

La perfomance a tratti flette su una caricatura estrema non solo e non tanto nel corpo, ma anche nella sonorità del parlato. Il sottovalutato, almeno in vita, pittore di origine svizzera associa la sua invisibilità agli occhi del mondo civilizzato alle sembianze vocali di un animale. Ligabue sbraita come un pantera, annuisce come una gallina, fuoriesce la lingua come una vipera, si trasforma in un deriso freaks vivente e ha bisogno di un’educazione nei confronti del mondo proprio come un neonato. Non ne sente però una necessità, lui si auto definisce “L’artista” e conscio di ciò non vede la possibilità di amalgamarsi con la civiltà essendo sicuro che verrà ricordato. Malgrado ciò, Germano ne esce quasi sempre integro da una prestazione dispendiosa in termini soprattutto mentali.

La giovinezza e la vecchiaia dello strambo personaggio sono scanditi da una forma gran parte delle volte didattica nella regia e fortunatamente aggiustata con un paio di guizzi in sede di montaggio: tagli rapidi intervallati da flashback che narrano i drammatici passaggi formativi di una vita da emarginato, escludendo il misero prestigio nella vecchiaia, che riescono a donare al film un’originalità nel comparto estetico inaspettata.

La suddivisione netta di una prima parte densa di un realismo storico, legata al martirio subito dall’artista e una seconda parte, al contrario, colmata da un lirismo poetico, evidenzia uno dei sintomi dell’evidente caos in fase di scrittura. La sceneggiatura, scritta a quattro mani, rimane in superficie quando mostra lo stereotipo dell’artista tormentato e sbanda quando tenta percorsi onirici privi di necessità ai fini della trama, sovraccaricando l’interpretazione stessa e rischiando, in questo modo, di ridicolizzare non volutamente l’attore.

Volevo nascondermi risulta stigmatizzato dalle tematiche storico-sociali sempre apprezzate in quel di Berlino: un personaggio estromesso e discriminato, in un film costruito su mura che non possono essere oltrepassate, di uomini che devono essere ingiustamente rieducati e censurati per poter entrare o rientrare nelle leggi ferree di una società che non vuole accoglierli. Quindi di vagabondi, di barboni, di artisti, di misconosciuti viaggiatori.

(Paolo Birreci)