Us (Noi), di Jordan Peele (2019)

Un padre un po’ alticcio si muove come uno zombie all’interno del Luna Park.
Probabilmente i genitori della piccola Adelaide si lasceranno a breve ed è già lì l’inizio di tutto, con genitori assenti e figli che scappando da genitori zombie perdono se stessi tra gli specchi.

Dopo Scappa (Get Out) torna nuovamente all’ horror Jordan Peele con Us (Noi), un’indagine sulla reale identità dell’essere umano nel 2019.
Un’identità falsata da giochi di specchi che fanno perdere l’orientamento in un mondo dove sotto e sopra continuamente si scambiano.
Un gioco dove il riprodurre alla perfezione i movimenti riesce a nutrire le “copie del sottosuolo” che quindi con una coscienza più forte, aggiornata, provano un ribaltamento e come zombie riemergono e conquistano terreno.

  • Who are the “New Americans”?


Da qui parte il ragionamento lucidissimo di Jordan Peele che va a toccare l’era che sta vivendo la nostra generazione, quella del Web 3.0, quella dell’Internet pensato per gli oggetti dove la macchina, come fanno le copie di Jordan Peele, imitando (o nel caso di Alexa, che qui sarà determinante per la vita di alcuni personaggi, ascoltando) incrementa le proprie capacità.

https://www.youtube.com/watch?v=5qf_h2bzGN4
«Ophelia… call the police!»
«Sure. Playing “Call the police” by N.W.A.»

Nei primi dieci minuti ambientati negli anni ’80 periodo di successo per VHS, videoregistratore e blockbuster (a partire da quel Jaws sulle magliette dei bambini uscito solo una decina d’anni prima o quella maglietta con su un’immagine tratta dal video diretto da John Landis per Thriller di Michael Jackson) vediamo per la prima volta una delle copie, ed è come se Peele voglia rimarcare il fatto che già negli anni ’80 si era instillato il piccolo germe di una totale rivoluzione (tecnologica, come teorizzò anche Francis Ford Coppola).
Una rivoluzione che adesso nel 2019 può iniziare il suo corso e cambiare per sempre gli United States, appunto l’US del titolo, ma che in realtà cambierà le prospettive di noi tutti.

Se prima eravamo noi a costruire la rete adesso è la rete che si costruisce intorno a noi, un nuovo mondo che parte dall’oggetto per ricreare senso.
Strada che sceglie di intraprendere anche Peele che attenziona particolarmente i “suoi” oggetti attraverso cui costruisce il senso intorno all’opera.
Mantenendo altissimo il grado di ambiguità, sfrutta sempre oggetti dove si può ritrovare sempre una sorta di dualità.
Le forbici sono gli oggetti simbolo dell’opera, strumento di uso comune che tutti possiedono in casa e che possono essere usate non solo per normali usi domestici, ma anche come armi.
Oggetti dalla doppia natura che con le loro lame aperte ricordano le orecchie dei conigli bianchi ancora chiusi in gabbia all’inizio del film, ma che alla fine saranno liberi di vagare per le stanze di quel piccolo inferno proprio come le copie provenienti dal sottosuolo guidate da Red (versione Big Daddy di “La terra dei morti viventi” di George Romero) abbandonano quel Luna Park che va a sostituire le vetrine del centro commerciale dove si affacciavano gli zombie di “Dawn of the Dead” nel 1978
(tanto chi ci va a comprare più nei centri commerciali con Zalando e Amazon?) .

Jordan Peele è attualmente il regista più politico degli United States, ma se nel primo film era possibile trovare ancora un’identità poiché c’era ancora una divisione netta fra comunità nera e bianca, qui la lotta per il Black Power si fa più tenue e diventa più forte l’analisi dei fenomeni, soprattutto tecnologici, che sta vivendo la nostra generazione che con tutto questo gioco di rimbalzi tra immaginario e reale non permette più la totale presa di forza di un mondo rispetto all’altro (Siamo fantasmi? Siamo dati? Siamo cibo?).
Siamo destinati tutti ad essere brutte copie di noi stessi, ognuno chiuso nella propria stanza a creare tramite i social la propria copia perfetta e quando «non ci sarà più posto all’inferno cammineranno sulla terra», un inferno costruito tramite quella “calamità” di cui tanto parla il passo 11:11 di Geremia.

«Ecco, io faccio venir su loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò».

Come Trent, il nero personaggio di “Shock Corridor” di Samuel Fuller, siamo condannati come folli a passare tutto il giorno a fare comizi razzisti contro i neri e a rispolverare il cappuccio bianco per la caccia, non capendo di essere caduti in un limbo di follia e irrazionalità dove tutti uguali non riconosciamo più il nemico da combattere (siamo noi stessi i nemici da combattere?).

Inferni a confronto:

  • Shock Corridor, Samuel Fuller (1963)
  • Una delle ultime sequenze di Us di Jordan Peele

Nel film di Jordan Peele è Red e non Trent questa volta che con quel “We’re americans” apre le porte di questo nuovo corridoio della paura dove scoppia una follia osmotica che passa di corpo in corpo e porta in campo un prima e un dopo, un sotto e un sopra, la luce e l’ombra collegate dalla danza di due donne (come un altro horror uscito quest’anno).
Se nel film di Fuller il protagonista diventava matto tra i matti, la nostra protagonista invece riesce a fuggire dal manicomio, ma fuori troverà un mondo totalmente invaso dalla catena delle copie che sembra dirci «non c’è via d’uscita ormai».

Sotto i nostri piedi c’è un’oscurità che cammina e danza insieme a noi e che cerca di presentarci il conto.
Una volta entrati nel corridoio della paura non possiamo più vedere la nostra forma e come conigli siamo pronti a eliminare la nostra prole ora che non ci riconosciamo e che non ci sentiamo più al sicuro.
È arrivato il momento di rimetterci la nostra maschera preferita sul volto, aspettando che tutto lentamente finisca.

Quello di Peele è un cinema di confini e sconfinamenti alla ricerca di un’indagine sull’identità umana, un cinema fatto di fantasmi che cercano corpi in un mondo saturo di fotogrammi che, come la protagonista bambina, ha smesso di parlare e costruisce il suo significato tramite la citazione e il taglio netto di una forbice con un passato che ci ha abbandonato nel Luna Park.
L’orrore del regista americano straborda dalla pagina scritta e a passo lento come uno zombie di Romero percorre il suo nuovo corridoio della paura per risalire in superficie e porre le basi per un nuovo modo tutto americano di fare cinema (horror in questo caso) dove la satira e l’indagine fenomenologica diventano fondamentali.

(Carmelo Leonardi)