Dancer in the Dark, di Lars Von Trier (2000)

Selma è emigrata negli Stati Uniti con il figlio, il quale soffre della sua stessa malattia, e che la renderà cieca. Lavora duramente per poter guadagnare più denaro possibile e dare al figlio condizioni di vita accettabili. La sua energia di vita deriva dall’amore per i musical, ma un imprevisto peggiorerà la situazione. 

Al 53esimo festival di Cannes, l’allora emergente regista danese Lars Von Trier vinse il premio più ambito, la Palma d’Oro, con un dramma cupo e realistico. Ma l’opera non è da considerarsi un semplice dramma, ma anche un vero e proprio musical, in quanto i numeri musicali immaginati dalla protagonista (interpretata dalla straordinaria cantante islandese Bjork, vincitrice a Cannes come miglior attrice) sono realmente messi in scena dal regista. Più precisamente, il film potrebbe essere visto come un “anti-musical” perché, pur mostrandoci (bellissime) performance danzate e cantate, la vicenda narrata è tragica e senza speranza, al contrario dei colorati, tipici musical tipici dell’epoca d’oro di Hollywood.

Von Trier ci trasporta in un mondo corrotto e grigio: la sua regia si concentra sulla protagonista, ci fa’ vivere in prima persona il suo dolore grazie ai movimenti (spesso traballanti) della macchina a mano. Egli è straordinario nell’evitare le esagerazioni e le enfatizzazioni forzate, ma è in grado di travolgere e commuovere lo spettatore grazie alla potenza delle inquadrature e l’onestà della storia narrata.

In “Dancer in the Dark” i più poveri, gli ultimi della società, non vengono aiutati, ma anzi, ulteriormente puniti e penalizzati. Selma, non solo perde i soldi guadagnati, ma finisce in prigione per aver commesso un omicidio, non potendo così più vedere il figlio. Il regista riprende “l’ideale dell’ostrica” di Verga: chiunque provi ad andare contro il proprio destino infausto, finirà per trovarsi in una condizione peggiore di quella attuale. Il finale ne è la conferma: la tragedia si conclude con un epilogo straziante e senza speranza.

Tutti i personaggi sono delineati psicologicamente in modo accurato. L’autore di “Dogville” ci mostra un mondo alla deriva, dove i deboli non hanno possibilità di redenzione. L’avidità è parte dell’uomo, e quest’ultimo è corrotto da essa. Von Trier tratterà questi temi anche nei successivi film, riuscendo sempre a far riflettere il pubblico, colpendolo dritto al cuore.

Von Trier non utilizza trucchi semplici o fastidiosi ricatti per smuovere l’animo dello spettatore, ma riesce a catturare l’attenzione costruendo un grande pathos, grazie ad un montaggio pressochè perfetto, una fotografia dai toni freddi e distaccati e una recitazione magistrale da parte del cast (su tutti, i tre protagonisti Bjork, Deneuve e Morse), oltre alla già citata, straordinaria mise-en-scene (comprendente anche i numeri musicali, inseriti in modo geniale).

“Dancer in the Dark” è uno dei Capolavori degli anni 2000, un’opera che porta avanti il discorso iniziato da Von Trier all’inizio della filmografia e che continuerà nelle opere successive. Il grande Autore danese riesce a dare un’impronta e uno stile ben riconoscibile ad ogni suo film, pur non ripetendosi mai in maniera noiosa o banale: egli tratta di donne martiri, forti e volonterose che combattono in un mondo egoista e maschilista, tratta la depressione, l’impossibilità di riscatto , l’assenza di vero amore, il rapporto di coppia, la violenza e la corruzione del mondo.

Un film sempre attuale e in grado di scuotere le coscienze come il vero Cinema sa fare. Un’opera dal taglio profondamente europeo ma universale e fondamentale nel panorama cinematografico del nuovo Millennio: la ballerina del titolo danza nell’oscurità, persa e senza via d’uscita, e noi con lei.