Holy Motors, di Leos Carax (2012)

L’intento discorsivo e metacinematografico dell’intera operazione di Holy Motors si palesa sin dal suo incipit, dove, con rimandi espliciti, vediamo manifestarsi nel profilmico l’entità dell’enunciatore, interpretato dallo stesso Carax, e dello spettatore, una sala gremita di spettatori che si scoprono dormienti, impassibili. Sorge dunque una sorta di cortocircuito poichè i ruoli del processo comunicativo cinematografico sono alterati, ribaltati: è lo sguardo fatalista di Carax sulla cecità spettatoriale nel cinema odierno, statue pallide incapaci di vedere. Ecco che ci viene fornita la chiave di lettura dell’opera: un’esplorazione metacinematografica attraverso i risvolti e le implicazioni della modernità.

La convergenza tra cinema e modernità, intesi come caratteri di discorso, risiede in un simbolo che dopo l’incipit si rivela: la limousine, quel luogo insensibile, constrassegno di movimento, frenesia, distacco, contemporaneo, che, come nel Cosmopolis dello stesso anno, si fa emblema di un certo tipo di valori.
Tuttavia, se nell’enorme lavoro di Cronenberg la valenza si “limita” a ció, qui si estende e assume valore in riferimento all’atto di sguardo e al cinema: se dall’interno è possibile vedere fuori, all’inverso lo sguardo rimbalza su sé stesso, come se-scivolata fuori dalla sua concezione-l’opera sia liberata in un circuito chiuso dove assume senso in riferimento a se stessa.
Dunque questo “motore sacro”, la limousine, rimane l’unica traccia tangibile di realtà e diventa rete connettiva(attraverso le strade parigine) di un’ecosistema finzionale (la città), nella quale prendono forma schegge di narrazione allegoriche(gli appuntamenti), tasselli che strutturano la riflessione di questa maestosa opera.

Carax descrive la miseria di un cinema morente, in balia dell’avidità del system e della standardizzazione(1°appuntamento), condizione scaturita da un’evoluzione sempre più improntata verso la spettacolarizzazione e la resa visiva, che se da un lato porta con sé la possibilità di esaltazione del movimento e della bellezza, dall’altro risulta svilente, superficiale (2°appuntamento). Il regista francese scorge una fenditura in questo cupo scenario, una speranza che si manifesta quando l’ambiguo, l’incredibile, lo stravagante, invade-come un virus benevolo-quel contesto patinato e sintetico, conferendogli nuova linfa vitale; l’ambiente tenta invano di avvelenare quest’illusione con la corruzione: Carax non ci sta(Monsieur Merde che divora i soldi; 3°appuntamento). Quindi l’ottica pessimistica del film vede il cinema odierno come una bambina timida che preferisce mentire piuttosto che farsi coraggio e uscire, rischiare, mettersi in gioco: delitto e castigo coincidono(4°appuntamento).

Il legame necessario e chiaro con la realtà che l’opera aveva mantenuto, all’interno della sua struttura, per tutta l’evoluzione discorsiva, va acuendosi nel penultimo appuntamento: realtà e finzione, finora strettamente collegate ma separate, giungono a un punto d’indiscernibilità. In questo frammento la traccia del reale si prolunga come uno spettro anche al di fuori della limousine. Se già questo infrangeva il confine tra il mondo in cui si racconta e quello che si racconta, l’indiscernibilità si ancòra nel momento in cui la sequenza, poco dopo, si evolve in un impeto musical (“Who were we?“). Dunque, per dirla con Deleuze, si avrà un “sogno implicato[…], dove l’immagine[…] si prolunga in un movimento di mondo[…], che supplisce al movimento che viene meno del personaggio”: è il demiurgo Carax che interviene, un movimento spersonalizzato dove la finzione assorbe lo spettro di realtà.

Per concludere, Leos Carax dà vita e forma a un’opera metacinematografica enorme, tanto vasta da rischiare di sprofondare nel mare delle potenzialità ermeneutiche. La grandezza di questo film, per ricollegarci all’incipit, è di (ri)nascere, (ri)dare ispirazione e vigore a un cinema agonizzante attraverso un atto di sguardo della sua condizione morente.

“Niente ci rende così vivi come vedere gli altri morire.”