Lancelot du Lac, di Robert Bresson (1974)

UN CINEMA VERGINE

L’austerità bressoniana spalmata in oltre quarantanni di cinema, si scontra con la leggenda e il mito. In mezzo all’apparente dolce fiaba di “Quattro notti di un sognatore” (1971) e al funesto “Il diavolo probabilmente” (1977), quest’ultimo vero punto di arrivo di un’idea cinematografica minimale portata al limite più estremo, estetico e narrativo. Troviamo “Lancillotto e Ginevra”.

Riprendendo i testi dei romanzi bretoni. Bresson applica a una materia profondamente lirica ed epica, il suo radicalismo estetico e concettuale, basato su un lavoro di sottrazione e astrazione dell’immagine, fino ad approdare a una totale scarnificazione dell’apparato audiovisivo. Stravolgendo la narrazione mitica legata ai cavalieri della tavola rotonda, rintracciamo un lavoro di scrittura tendente a disunire più che unire il gruppo dei cavalieri, verso una situazione mortale. Il sacro Grall, oggetto che porta al fallimento la spedizione, viene utilizzato come strumento più teorico che di scrittura, icona trasfigurata e priva di qualsiasi tratto epico, eliminando così dei paratesti che rischierebbero di far vacillare dallo spettatore tutte quelle rigorose percezioni estetiche dettate dal cineasta francese.
Il mito della conquista sopraffatto dal mito del ricordo, sempre fatalista e mai nostalgico.

UNA MATERIA DISINCANTATA

I cavalieri portano con se il fardello malinconico di una sconfitta, elemento totalmente disumanizzante che diventa autodistruzione di un collettivo e conseguente carneficina tra uomini spogliati da ogni ideale romantico. Il finale e il suo percorso d’arrivo, in questo, ne rappresenta una perfetta dimostrazione. Il modello istituito da Bresson, travolge anche il più patetico sentimentalismo. L’amore impossibile tra Lancillotto e Ginevra, tratteggiato in maniera astratta dall’autore, prende le distanze da qualsiasi ideale basato su sentimenti amorosi, quindi abbattendo strutture narrative codificate.
Robert Bresson, fervente cattolico, con questa terz’ultima opera compie un gesto dai codici universali, non lavorando più su personaggi destinati a soccombere dalle forze maligne che li circondano (Mouchette, Il curato, Balthazar) distanti da modelli conosciuti dalla cultura occidentale, ma prendendo delle icone affermate e intrinseche alla storia dell’uomo.

L’assottigliarsi delle linee narrative e dialogiche, creano una piattaforma da cui la cinepresa si aiuta per cancellare le espressioni attoriali, quest’ultimi non appaiano in più pellicole dell’autore francese, perché destinati a nascere e morire in singoli film. La recitazione è impalpabile e meccanica nelle sue funzioni primitive, come sedersi a cavallo o inserire una spada nell’apposita fondina, tutte azioni da cui lo sguardo bressoniano trova attrazione e linfa vitale, non è sporadico vedere inquadrature su particolari o oggetti ininfluenti. Il barocchismo scenografico tipico di un testo narrativo simile viene spazzato via, ambienti costituiti da strutture di paglia o oggetti fragili, percorrono l’intera durata della pellicola. L’occhio visivo di Bresson tende a muoversi su angolazioni simili, cavalli mai inquadrati pienamente e sempre dal basso, così come il viso dei cavalieri che la cinepresa evita il più possibile di riprendere o i rarissimi campi lunghi, composti da pochi e spogli edifici.
Se nel linguaggio filmico la sonorità ha un ruolo incredibilmente importante, anche Bresson ne è un’esponente teorico di sterminato rilievo. In “Lancillotto e Ginevra” ogni qualsivoglia tratto musicale enfatico viene lasciato da parte a favore degli strascichi lenti e poco armoniosi di corazze pesanti, trasportate da uomini decadenti.

Le armature di questi cavalieri danno un senso di fragilità e incertezza costante.

“Lancillotto e Ginevra” è uno degli ultimi tasselli imprescindibili di un autore tra i più ostici, ma allo stesso tempo sperimentali della storia del cinema.

(Paolo Birreci)