The Wire – David Simon, Ed Burns(2002-2008)

Non è mai facile utilizzare termini come classico e storicizzato quando si parla di serialità televisiva, risulta errato perché proveniente da una metodologia di racconto audiovisivo, come stiamo imparando a conoscerlo in questo periodo storico, ancora in via di definizione.

Tuttavia sono esistite delle “Golden Age” che hanno costruito la moderna storia della televisione: gli anni 50/60 con “Hitchcock Presenta” e le prime stagioni di “Star Trek”, gli anni 70 e 80 con la serializzazione in massa dei polizieschi e i primi casi di attori cinematografici trapiantati nelle serie televisive (Roger Moore e Tony Curtis in “Attenti a quei due”), arrivando agli anni 90 con la rivoluzione Lynchana di “Twin Peaks” e le innovazioni tematiche proposte dal canale via cavo HBO con la serie Tv “0z”, tra i primi prodotti basati su un realismo crudo e violento che fanno da preludio ai due capolavori successivi dello stesso emittente televisivo.

Jimmy Mcnulty con attorno alcuni dei personaggi che compongono le prime due stagioni della serie Tv.

Mandata in onda nello stesso arco di tempo dell’epopea malavitosa di Tony Soprano e quindi con un fardello difficile da sostenere, The Wire è inserita universalmente nell’organigramma che compone i pilastri intoccabili della serialità di tutti i tempi, con radici radicate, anche involontariamente, nel linguaggio seriale contemporaneo.

La titanica opera è organizzata su sessanta episodi che hanno come linea guida l’articolata e contraddittoria città di Baltimora e di conseguenza degli Stati Uniti stessi. Nonostante le connessioni tra i personaggi e i quartieri geografici della città, riproposte più volte nel corso delle cinque stagioni, lascino presupporre un unico blocco con un inizio e una fine ben precisa, andando in profondità  si comprende la natura di questo progetto dal tono innanzitutto giornalistico, concedendo la possibilità di guardare singole stagioni come se fossero quotidiani giornalistici di un particolare luogo di Baltimora: con le prime due stagioni a mappare le coordinante spaziali di alcune zone, precisamente l’amministrazione logistica dei quartieri malfamati e del fondamentale porto adiacente alla città, per poi invertire la rotta e iniziare una disamina sui quartieri governativi del problematico “sistema” burocratico, scolastico e giurisprudenziale frammentato nelle seguenti tre stagioni.

Questo manuale audiovisivo di sceneggiatura deriva da un’abissale conoscenza interna alla struttura istituzionale che governa la città del Maryland.

Simon, nella sua vita personale, venne impegnato in alcune delle attività professionali che tratta la serie: tra cui giornalista del Sun e successivamente operativo nella sezione omicidi di Baltimora.

Il primo libro di David Simon che tentava di riassumere quello che accadeva realmente nella squadra omicidi di Baltimora.

Il punto di vista della serie è quello di un imparziale scrittore che accosta la narrazione sporca e brutta di un giornalismo illustrativo e mai empatico, con il linguaggio non bello da leggere peculiare della sceneggiatura, raggiungendo una solidità mai vista prima tra le due materie.

La forma si piega al taglio descrittivo della scrittura di Simon. Il montaggio ne diventa assuefatto non seguendo più una linearità drammaturgica evolutiva: mostrando un evento A che può esplodere da un momento all’altro, passando da un evento B e C e strozzando la tensione dell’evento A che non è detto ritorni nell’episodio, se non nell’intera stagione e serie.  

Simon e Burns seguono alla lettera le leggi di un buon articolo giornalistico, prima spiegando allo spettatore/lettore di che cosa si tratta e in seguito entrando nel merito.

The Wire ha completamente fatto propria la lezione di Pudovkin sulla cosiddetta “sceneggiatura di ferro”, il controllo del dispositivo e un’idea ideologica forte e precisa a priori rispetto alla costruzione successiva della trama, in questo caso l’analisi della città di Baltimora come premessa e solo secondariamente l’attenzione agli eventi principali (i lunghi pedinamenti fisici e tecnologici della narcotici nei confronti dei boss della droga) che fungono da polpa all’idea iniziale.

Vsevolod Pudovkin fu uno dei più importanti esponenti del formalismo russo cinematografico che la struttura di The Wire riprende con consapevolezza.

Ogni membro della popolazione di Baltimora, che sia un poliziotto della omicidi o della narcotici, un avvocato o un giudice, un boss della droga o un nomade strafatto, ha un compito inconscio da portare avanti, che sia legale o illegale non fa differenza. Il risultato che ne esce fuori è quello di un mosaico, di un affresco dal movimento centripeto con delle linee (i personaggi) che tendono a convergere verso un solo punto centrale (il sistema Baltimora e di riflesso il sistema capitalistico statunitense) L’intuizione geniale sondata per la prima volta più di dieci anni fa, non è altro che il tipico processo della narrazione e della fruizione trans-mediale tanto discussa oggi: più specificatamente consiste in una raffigurazione dell’alienazione di una società in trasformazione e in perpetuo movimento politico, sociale e razziale che, come un serpente che si morde la coda, cerca utopicamente un cambiamento radicale che non potrà mai avere.

“Creation” di Marco Brambilla.
Il “Giudizio Universale” di Michelangelo Buonarotti.

Le due opere sono caratterizzate da movimenti e azioni verso il centro: la figura di Cristo per il capolavoro del Buonarotti, una sorta di buco nero secondo Brambilla, e la città di Baltimora in The Wire.

Già nella prima stagione la narrazione si impegna a risaltare i problemi che ha intenzione di mettere a fuoco e scandagliare. Baltimora è comandata da un ordinamento di matrice medievale e sovrano del sistema che detta le leggi. Un sistema che blocca e condiziona: che chiude casi irrisolti perché il sindaco ha bisogno di abbassare il numero di criminali senza-tetto, per evitare una perdita di consensi in vista delle elezioni governative, o la cancellazione di intere squadre della narcotici per mancanza di fondi destinati alla scuola, e infine lavatrici di denaro sporco gestite da avvocati che conducono i giudici a riduzioni delle pesanti pene che meriterebbero i loro assistiti. Non esistono eroi, non esistono protagonisti, esiste lo spettro cronenberghiano del capitalismo, ben mascherato da una dittatura che miete le altrettante vittime che nasconde.

Si parla di uomini che professionalmente vivono per regalare alla città un buongiorno migliore, ma eticamente mostrano la loro vera indole criminale come, se non peggio, i veri killer di Baltimora. Ci sono poi uomini appartenenti a una razza in via estinzione, coloro che sono costretti ad aggirare il sistema e mettere in discussione le proprie carriere con l’implementazione, per un problema più importante e non considerato dai piani alti, di intercettazioni e mobilitazioni di squadre destinate ad altri casi utili solo per accontentare un sindaco nevrotico. Solamente chi avrà un doppio contatto tra questi due pianeti opposti e simmetrici al tempo stesso, come Omar Little, il giustiziere dal codice d’onore che elimina, come dice lui stesso, solo chi fa parte del “sistema-gioco”, avrà la possibilità di sopravvivere perché saprà come giocare a scacchi (citando un esemplare dialogo in uno dei primi episodi della prima stagione).

O chi tenta la strada dell’economia, dopo aver appreso la filosofia imprenditoriale furba e invisibile del traffico di droga (la famiglia dei greci, Stringer Bell) al posto di sporcarsi le mani su strada.

La paradossale e indicativa intervista dell’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama a David Simon è il segnale dell’enorme forza di The Wire nel rimanere impressa nella memoria collettiva, anche dopo molti anni dalla messa in onda.

Per la conclusione di un cerchio così meticolosamente calcolato, la quinta e ultima stagione è encomiabile nel fare il punto della situazione e dare per la prima volta allo spettatore una chiave di lettura con l’entrata in campo dell’attività giornalistica, frutto dell’esperienze maturate da Simon, e delineando un pensiero che spiega l’importanza del saper leggere tra le righe di ogni situazione, come il caporedattore del Sun, Gus Haynes, che non si limita a pubblicare articoli di giornale, ma ne rivede il contenuto, scava oltre la superficie per essere certo di avere tra le mani un pezzo di cronaca che solo a voce gli viene fatto passare per veritiero.

La stagione finale dichiara di leggere tra le righe.

Fare dietrologia, come un buon giornalista, è infatti il vero punto su cui si snoda l’intero apparato di The Wire, come dopotutto è la vita di ogni re.

“As I look back over a misspent life, I find myself more and more convinced that I had more fun doing news reporting than in any other enterprise. It is really the life of kings.”

(Paolo Birreci)